In
questo scritto, che l’Arcivescovo Giovanni Ferro, essendo
nel 1962 Pastore della Chiesa reggina, definì «aureo
libretto», il servo di Dio seppe offrire alla pietà
dei suoi confratelli nel sacerdozio una serie di riflessioni
e di pensieri così traboccanti di luce superna e di
ardore soprannaturale, che nessuno certamente dubiterebbe
di attribuire a uno dei più intimi confidenti di Cristo,
centro vivificante e ricapitolazione di tutto e di tutti nel
sacramento dell’Eucaristia.
È pertanto per noi utile ripercorrere, sia pure di
volo, talune di queste penetranti ed illuminanti riflessioni.
Posta la premessa che i ministri di Cristo sono «le
sentinelle del tabernacolo», con inusitato vigore scrive:
«Sentiamo forte, potente il bisogno di tributarti qui,
in questo sacro cenacolo, la nostra più profonda adorazione...
e poi ritornare tutto fuoco alle nostre parrocchie».
Ascendendo quindi verso la più alta vetta della santità
dove si trova la Vergine Maria, non ha timore di esclamare:
«Ti adoriamo... come Ti adorò la madre tua e
mamma nostra Maria Santissima, allorquando T’incarnasti
nel suo seno verginale». Passa poi con spontaneo pensiero
alla cugina della Vergine, Elisabetta, e, quasi rapito da
una scena celestiale includente sublimi concetti teologici,
soggiunge: «Ti adoriamo... come ti adorò Santa
Elisabetta quando da Maria Santissima fosti portato nella
sua casa. Tu allora riempisti quella pia donna di Spirito
Santo, concedendole il dono della profezia, e santificasti
il di lei figliuolo Giovanni Battista, ancora rinchiuso nel
seno materno».
Colmo di stupita riconoscenza nel cuore, ribadisce: «Col
sacerdozio Tu... ci hai dato poteri che ci fanno maggiori
di tutti i più grandi della terra... e gli stessi spiriti
celesti hanno in somma venerazione la nostra eccelsa dignità».
Trasferito il raffronto alla Madre stessa del Redentore, come
se compisse un’estasiante scoperta, si lascia sfuggire
dalla penna la sorprendente osservazione: «La tua Madre
medesima, sebbene la più eccelsa di tutte le creature,
aprì una sola volta il cielo e ti trasse nel suo seno
verginale, ma noi possiamo chiamarti ogni giorno dal cielo
in terra». Preso successivamente da incontenibile trasporto
soprannaturale, scioglie il suo animo nella seguente aspirazione,
che riecheggia le effusioni dei grandi mistici della Chiesa:
«Potessi avere tanti cuori e tante lingue quante foglie
vi sono negli alberi, quante gocce di acqua nel mare, quanti
atomi nell’aria per lodarti e ringraziarti tanto quanto
meriti».
Il mirabile dialogo non potrebbe avere epilogo più
eloquente e avvincente insieme, se non con il ripetuto, intrepido
impegno, che rivela la più verace e significante identità
soprannaturale del servo di Dio e a un tempo lo scopre nella
emblematica figura del «sacerdote eucaristico»,
emulo degli ardimentosi vessilliferi dell’Eucaristia
Francesco Borgia, Giuseppe Benedetto Labre e Giovanni Battista
Vianney.
Come non domandarsi a questo punto se non abbia egli assunto,
nel corso della formulazione delle sue riflessioni, ispirazione
e slancio dall’evangelista Giovanni che, come si sa,
ebbe, egli vergine, il privilegio di ascoltare i palpiti cocenti
del Cuore di Cristo durante la Cena del supremo commiato?
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