Non
è facile individuare un uomo simbolo della lotta alla
’Ndrangheta. È come se la Calabria fosse perennemente
in un cono d’ombra: in questa regione si combatte la
prima linea di una guerra dura e sanguinosa, ma dal fronte
giungono ben poche notizie. Chi sono i grandi ricercati? Chi
sono i grandi pentiti? È difficile che i non addetti
ai lavori sappiano rispondere. Lo stesso vale, specularmente,
per i protagonisti dell’antimafia, i cui volti sono
sconosciuti ai più: raramente raggiungono gli onori
delle cronache, sporadicamenente le trasmissioni televisive
si occupano delle loro vicende, dei loro problemi, delle loro
vittorie. Eppure, nel silenzio, in pochi e con pochi mezzi,
contrastano la prima organizzazione criminale italiana. In
questo sono decisamente più sfortunati degli omologhi
siciliani o – specie negli ultimi mesi – campani:
e non perché la popolarità sia un valore in
sé, ma perché l’attenzione dei media molte
volte è la premessa per un intervento della politica,
troppo spesso sorda ai richiami effettuati attraverso normali
canali istituzionali.
Uno dei magistrati italiani più esposti nella lotta
alla ’Ndrangheta è certamente Vincenzo Macrì.
Calabrese, in magistratura da più di 30 anni, molti
dei quali trascorsi nella procura di Reggio Calabria, dal
’93 è sostituto procuratore nazionale antimafia.
Ha accettato di buon grado di concederci quest’intervista
a tutto campo sulla mafia calabrese. L’unico vincolo
che ci ha posto, per evidenti ragioni di opportunità,
rigurda l’inchiesta della Dda di Catanzaro sulla cupola
politico-mafiosa che avrebbe cercato di delegittimare alcuni
magistrati della procura di Reggio Calabria, e che lo vede
coinvolto come parte lesa.
Dott. Macrì, quando si parla di mafia solitamente si
fa riferimento a Cosa Nostra, l’organizzazione ritenuta
più potente e pervasiva in Italia. In realtà
le cose non stanno così. Perché nel sentire
comune c’è questa percezione?
Non vi è dubbio che all’interno delle mafie di
origine italiana, Cosa Nostra sia l’organizzazione più
nota, nella quale si è per lungo tempo identificato
il concetto stesso di mafia. Ci sono diverse ragioni per spiegarlo.
C’è la storia, innanzitutto, perché già
alla fine dell’Ottocento la mafia siciliana era sotto
lo sguardo della giovane nazione italiana e proprio in quel
periodo si svolge la prima visita di una Commissione parlamentare
in Sicilia con il compito di analizzare e indagare il fenomeno
mafioso. Vi è poi il peso enorme che la Sicilia ha
sempre avuto sotto il profilo storico, politico, economico.
Di contro, irrisorio è sempre stato il ruolo ed il
peso della Calabria, regione che non ha mai influito nella
storia, nella politica, nell’economia né ai tempi
del Regno delle due Sicilie, né in quelli dello Stato
unitario. La Sicilia ha sempre avuto grandi uomini politici,
presidenti del Consiglio, ministri, la Calabria piccole figure
di rilievo solo regionale, tranne poche eccezioni.
La mafia siciliana è apparsa da oltre un secolo nella
letteratura, nel teatro, poi nel cinema, infine negli sceneggiati
televisivi, è stata studiata da sociologi, antropologi,
storici di rilevo (Pitrè, Pantaloni, oltre a vari autori
stranieri), mentre la ’Ndrangheta solo da qualche decennio
ha ricevuto l’attenzione di saggi storici di un qualche
rilevo. E ancora, la mafia degli Stati Uniti è stata
sempre considerata come diretta filiazione di quella siciliana,
mentre la componente proveniente dalla Calabria o da altre
regioni è stata praticamente ignorata.
Quando poi, negli ultimi 30 anni, ha acquisito potere e spazio
“politico”, è stata la stessa ’Ndrangheta
a scegliere un basso profilo, una politica di “dialogo”
con le istituzioni e non di scontro frontale con esse, consapevole
che una maggiore visibilità non le avrebbe dato alcun
vantaggio, anzi la avrebbe ostacolata nella scalata che stava
lentamente conducendo ai vertici del traffico internazionale
di droga.
Forse hanno influito anche le differenze organizzative: Cosa
Nostra ha storicamente una struttura piramidale e una coesione
assenti nella ’Ndrangheta. Ma questo discorso vale anche
per la ’Ndrangheta di oggi?
È un aspetto che non si può esaurire nello spazio
di un’intervista. Fino a circa dieci anni fa mancava
una vera e propria gerarchia, del tipo di quella esistente
in Sicilia. Nessuna cupola insomma, ma tanti “locali”
(la struttura organizzativa di base della ’Ndrangheta,
nda.) ciascuno dei quali competente su un determinato territorio,
affiancati dalle cosche (strutture riferibili a singole famiglie),
che trovavano il loro momento di coordinamento in organi come
il “locale” madre, quello di San Luca, territorio
nel quale non a caso si svolgevano (precisamente nei pressi
del santuario della Madonna di Polsi) le riunioni annuali
dei responsabili dei “locali” sparsi in Italia
e nel mondo.
Un’organizzazione del genere si è rivelata efficiente
e duratura, ma non ha saputo prevenire guerre sanguinose che
si sono verificate negli anni 70 e 80; così, nel 1991,
al termine della seconda guerra di mafia, è stata avvertita
la necessità di istituire un organismo sovraordinato
(la Commissione provinciale o “provincia”) rappresentativo
dei tre mandamenti (la montagna, ovvero la Locride, la Piana,
ovvero la fascia tirrenica, la città, ovvero Reggio
Calabria), corrispondenti ai territori dei circondari dei
Tribunali di Locri, Palmi e Reggio, nei quali è suddivisa
la provincia di Reggio Calabria. Di questo organismo è
probabile fosse componente di vertice anche un personaggio
come Giuseppe Morabito, stando almeno ad alcune emergenze
investigative e giudiziarie.
Cosa Nostra ha avuto un rapporto più organico con la
politica...
Anche la ’Ndrangheta ha un rapporto con la politica.
Vi sono decine di processi, alcuni ancora in corso, che ne
offrono testimonianza e riscontro. Cito per tutti i processi
Romeo, Matacena, Mancini, prescindendo beninteso dall’esito
degli stessi, ma nei quali si rinvengono decine di dichiarazioni
di collaboratori che riferiscono circa i rapporti tra politica
e mafia calabrese. Ho sempre pensato che uno dei motivi per
cui questa organizzazione appare invincibile è proprio
la perdurante contiguità con il potere politico, con
le istituzioni, compresa quella giudiziaria, con la massoneria,
con la grande finanza. Una ’Ndrangheta priva di rapporti
con la politica sarebbe cosa assai diversa da quella che è
attualmente.
Ma quali sono i rapporti tra mafia siciliana e calabrese?
Sono rapporti tradizionali. Ne abbiamo prove e riscontri di
ogni tipo. È un rapporto ancora in vita che si rinnova
in relazione a traffici di droga, partecipazione ad appalti,
strategie complessive ecc. Ricordo che il calabrese Domenico
Tripodo fu compare d’anello di Totò Riina, che
sia questi che Santapaola trascorsero parte della loro latitanza
in Calabria, che esponenti della ’Ndrangheta erano componenti
della Commissione regionale in Sicilia. La recente operazione
“Igres” ha offerto ulteriore conferma di tale
collaborazione nel traffico di cocaina dal Sud America all’Europa,
ma di esempi se ne potrebbero fare a decine. In questo momento
l’attenzione degli investigatori è rivolta a
possibili alleanze in vista dei lavori per la costruzione
del Ponte sullo Stretto.
È vero che la ’Ndrangheta è l’organizzazione
più violenta, di una spietatezza quasi primitiva? All’interno
di Cosa Nostra i Corleonesi sono considerati da alcuni un
elemento di rottura con la tradizione…
Le mafie sono per definizione organizzazioni spietate perché
fondano il loro potere sull’uso della violenza omicida.
Dunque non saprei stabilire una gerarchia di spietatezza.
La triste fama della ’Ndrangheta è dovuta, penso,
alla pratica dei sequestri di persona, anche nei confronti
di vecchi, donne, bambini, accompagnata in alcuni casi da
sevizie e crudeltà, come il taglio delle orecchie da
inviare alla famiglia del sequestrato o l’uccisione
degli stessi ostaggi dopo aver ottenuto il riscatto. Altro
elemento caratterizzante sono le numerose “faide”
a carattere familiare, all’interno di piccoli paesi
(Seminara, Ciminà, S. Martino di Taurianova ecc.),
che hanno lasciato sul terreno centinaia di morti spesso per
motivi futili, che però hanno costituito l’occasione
per scatenare conflitti per il dominio del territorio e per
l’affermazione del proprio prestigio mafioso.
È possibile calcolare anche in modo approssimativo
il numero degli affiliati? C’è chi parla di 5mila
’ndranghetisti solo a Reggio Calabria...
Il numero complessivo degli affiliati è assai elevato
e sicuramente molto superiore a quello di 5mila che continua
ad essere diffuso nonostante sia palesemente errato. Una stima
più attendibile è quella di alcune decine di
migliaia e il numero di 5mila riferito alla sola città
di Reggio non è lontano dalla realtà.
I “locali” sono tantissimi: in Calabria ve n’è
uno per ogni paese, villaggio, e nelle città, in ogni
rione o frazione. Se si pensa che vi sono “locali”
in Puglia, Basilicata, Lazio, Toscana, Emilia, Veneto, Lombardia,
Piemonte, Liguria, e ancora in quasi tutti i Paesi europei,
e poi in tutti i continenti abitati, si vedrà che si
arriva all’ordine di migliaia.
Quante sono le cosche e quali sono le più potenti in
questo momento?
Le cosche sono circa centocinquanta. Le più potenti
sono ancora quelle tradizionali: Piromalli e Molè a
Gioia Tauro, Pesce e Bellocco a Rosarno, Alvaro a Sinopoli,
Iamonte a Melito Porto Salvo, Barbaro a Platì, Romeo
e Nirta a San Luca, De Stefano e Condello a Reggio, Commisso
a Siderno, Aquino e Mazzaferro a Gioiosa, e così via.
Devono essere citate le cosche Mancuso a Vibo, Arena a Crotone,
Gallace a Guardavalle, e l’elenco potrebbe continuare
per ciascuna delle regioni interessate.
Negli ultimi mesi sono stati assicurati alla giustizia latitanti
di primo piano...
I latitanti calabresi, nonostante i numerosi e importanti
arresti di questi ultimi anni, sono ancora un centinaio e
forse più. Se sono stati catturati esponenti di spicco
come Giuseppe Morabito, Orazio De Stefano, Pasquale Tegano,
Roberto Pannunzi, Santo Maesano e altri ancora, restano ancora
latitanti pericolosi come Pasquale Condello, in questo momento
il numero uno tra i ricercati, e poi rappresentanti delle
cosche Rosmini, Iamonte, Barbaro e molti altri ancora. È
un problema serio in cui deve essere richiesto il massimo
impegno da parte degli apparati investigativi, perché
la presenza di latitanti rende vane le condanne se non seguite
da effettiva espiazione della pena e costituisce ulteriore
elemento di pericolo per la collettività.
La vecchia ’Ndrangheta si caratterizzava per la struttura
chiusa e per la presenza di riti iniziatici di carattere quasi
“esoterico”. Queste tradizioni permangono anche
oggi?
Alcuni osservatori pensano che i riti iniziatici di affiliazione
e di passaggio di grado appartengano al passato e rappresentino
ormai una tradizione folkloristica e poco funzionale. Non
è così. Esse sono state in qualche modo attenuate,
perché, se anche avvolte da segretezza, tuttavia potevano
essere rivelate dai collaboratori di giustizia. Oggi avvengono
in forme ancora più segrete e con numero di partecipanti
ancora più ristretto, ma sono indispensabili per definire
appartenenza e gerarchie interne, indispensabili per rendersi
“riconoscibili” in ogni parte del mondo, oltre
che per rafforzare il senso di identità.
In che periodo la ’Ndrangheta ha fatto il salto di qualità
entrando nel traffico di stupefacenti?
Nei primi anni Ottanta. Nel decennio precedente aveva rastrellato,
attraverso la pratica dei sequestri di persona, ingenti capitali
che ha poi investito nell’acquisto di morfina base,
eroina, cocaina. È un’attività che non
abbandonerà più e nella quale anzi acquisirà,
nel tempo, un netto predominio rispetto alle organizzazioni
concorrenti, grazie alla grande disponibilità di capitali,
all’affidabilità nei pagamenti, alla disponibilità
di una grande rete di distribuzione nelle regioni settentrionali
e all’estrema mobilità su tutto lo scenario internazionale.
Come vengono reinvestiti gli immensi capitali derivanti da
questi traffici?
Le forme di riciclaggio sono molteplici. Non è possibile
farne una descrizione. Dai profitti del traffico di droga
sono sorte imprese di costruzione, società finanziarie,
immobiliari e commerciali. Si è investito nell’edilizia,
nel commercio, nella grande distribuzione alimentare. Ingenti
patrimoni si sono trasferiti nelle mani dei mafiosi e dei
loro intermediari e prestanome. Gli investimenti maggiori
sono stati operati nel nord Italia: ristoranti, alberghi,
distributori di benzina, supermercati, villaggi turistici,
fabbricati, aziende agricole, discoteche. Una buona parte
è stata reinvestita nello stesso traffico di droga,
oltre che in quello di armi, di valuta. Investimenti risultano
nell’Est europeo, subito dopo la caduta del Muro di
Berlino, soprattutto a Praga e Bucarest, e quindi in tutta
Europa, comprese città come Parigi, Bruxelles, tutta
la Costa azzurra, la Spagna e così via. Un fiume di
denaro che si moltiplica ad ogni transazione di droga e che
finirà con l’inquinare l’economia e la
politica del nostro Paese, così come è avvenuto
in alcuni paesi del sud e centro America. Solo una piccola
parte di questo denaro è stata investita in Calabria,
che dunque non ha tratto alcun serio vantaggio dalla presenza
della ’Ndrangheta, se non per effetti marginali. Al
contrario, l’economia della regione ne è rimasta
complessivamente impoverita.
Proprio a fini di riciclaggio e di spaccio di stupefacenti
da molti anni la mafia calabrese è presente al Nord.
Ultimamente si è parlato sui giornali della scoperta
di “locali” in Liguria. Come spiega questa novità?
La presenza della ’Ndrangheta in Liguria non è
affatto recente. Al contrario, la Liguria, insieme a Lombardia
e Piemonte (compresa la Val d’Aosta) è una delle
prime regioni che già negli anni Settanta conoscevano
la presenza di numerose cosche in tutta la regione.
Tracce evidenti se ne trovano in numerosi processi condotti
in quella regione, già all’epoca del famoso caso
“Teardo”. Risulta la presenza delle cosche Asciutto,
Grimaldi, Bruzzaniti, De Stefano (in particolare hanno operato
in quella regione personaggi dello spessore di Paolo Martino
e Vittorio Canale), e molte altre ancora. In Liguria esiste
una struttura di ’Ndrangheta assai importante, detta
“camera di compensazione”, in quanto ha il compito
di raccordare le attività mafiose della regione con
quelle dei “locali” di Nizza e dell’intera
Costa Azzurra.
Come ha costituito la sua rete internazionale così
capillare?
L’organizzazione della ’Ndrangheta è articolata
a livello internazionale secondo gli stessi modelli organizzativi
presenti nei territori di origine. Questa caratteristica è
in fondo la sua arma segreta, quella che ne ha consentito
sviluppo, durata, presenza in tutti i continenti. È
uno sviluppo che si accompagna alla massiccia emigrazione
che nella prima metà del Novecento avvenne dalla Calabria
verso Australia, Stati Uniti, Canada, Belgio, Germania e altri
Paesi ancora. A questo si accompagna la straordinaria mobilità
che caratterizza alcune cosche, principalmente quelle della
Locride, le quali non avendo un ricco territorio da sfruttare,
al contrario di quelle operanti nella Piana di Gioia Tauro,
hanno scelto di spostarsi al Nord Italia e nel mondo per dedicarsi
ai traffici internazionali di droga. È stata una scelta
vincente, che ha consentito alla ’Ndrangheta di acquisire
il monopolio del traffico quasi totale di cocaina.
È in qualche modo calcolabile il suo giro d’affari
complessivo, la sua potenza economica?
Il traffico internazionale di stupefacenti fornisce gli introiti
più elevati, pari a circa l’80% del totale dei
profitti. Si tratta di cifre dell’ordine di miliardi
di euro, attraverso le quali la ’Ndrangheta (ma il discorso
vale anche per le altre due grandi organizzazioni criminali
del nostro Paese) è in grado di entrare nei circuiti
finanziari internazionali e offrire capitali liquidi e pronti
per investimenti ed affari, formalmente riconducibili a società
ed imprese “pulite”, ma in realtà controllate
dalla mafia.
Come spiega l’escalation di attacchi agli amministratori
locali?
Dalla crescente pressione sulle amministrazioni locali deriva
o l’infiltrazione delle amministrazioni comunali e provinciali
o la serie di intimidazioni e attentati cui assistiamo quasi
giornalmente. In qualche caso gli attentati nascono da contrasti
interni tra schieramenti politici contrapposti, di cui uno
si avvale di appoggi esterni mafiosi; in altri casi invece
si tende a spingere gli amministratori colpiti alle dimissioni
per sostituirli con altri di fiducia delle cosche. L’ombra
della ’Ndrangheta si allunga sull’amministrazione
e sulla politica; ai tradizionali collegamenti si sostituiscono
sempre più frequentemente presenze dirette di esponenti
delle organizzazioni mafiose all’interno dei consessi
elettivi e degli organi amministrativi locali (Asl, consorzi
ecc.).
In Calabria ci sono anche 28 consigli comunali sciolti per
mafia dal 1995, 16 solo in provincia di Reggio. È plausibile
che certi amministratori vengano colpiti perché non
rispettano patti precedentemente intercorsi?
L’elevato numero di consigli comunali sciolti per mafia
in Calabria (in percentuale il più elevato d’Italia)
manifesta la pressione della ’Ndrangheta sulle amministrazioni
locali allo scopo di condizionarne l’attività.
L’estensione del fenomeno e la sua recente accelerazione
fanno pensare a qualcosa di nuovo: si sta affermando in questa
regione un nuovo modo di fare politica, non attraverso il
confronto ma attraverso le armi e l’intimidazione. Se
così fosse ci troveremmo di fronte ad una situazione
eversiva dell’ordine democratico, dagli effetti devastanti.
Quanto alle cause specifiche è chiaro che ciascuno
dei Comuni interessati ha una storia a sé, ed è
difficile tentare di darne una lettura omogenea. Quello che
rileva è la tendenza che si va affermando, che è
partita da livelli bassi (piccoli Comuni) a livelli sempre
più alti (caso tipico il Comune di Lametia Terme) per
sfiorare capoluoghi di provincia e addirittura l’amministrazione
regionale.
La legge sul commissariamento secondo lei funziona o è
un rischio di strumentalizzazione politica?
Non so dire se il commissariamento dei Comuni interessati
dallo scioglimento per mafia degli organi elettivi abbia prodotto
effetti positivi o meno. Ma se lo strumento non funzionasse
vorrebbe dire che lo Stato non riesce a riprendere il controllo
delle amministrazioni locali neppure in forma autoritativa
e che le cosche continuano a dirigere la vita amministrativa
locale a prescindere dalla guida formale. Occorre che gli
scioglimenti dei consigli comunali siano accompagnati da incisive
e approfondite indagini da parte delle Dda interessate, dal
momento che le infiltrazioni costituiscono un elemento di
prova dell’esistenza di un’associazione mafiosa
attiva sul territorio.
Mafia è sinonimo di pizzo: è vero che in certe
località calabresi, paradossalmente, nessuno paga il
pizzo perché tutte le attività sono in mano
alle famiglie?
La pratica, diffusa e capillare, di estorsione ed usura, ha
lentamente provocato l’espulsione di molti commercianti
e imprenditori dalle loro attività, passate nelle mani
di prestanome dei mafiosi. In molti casi le estorsioni erano
dirette a tale obiettivo. In prospettiva si assisterà
ad un controllo sempre più esteso delle più
rilevanti attività economiche del territorio in mani
mafiose. Le regole del mercato, della concorrenza, il principio
costituzionale della libera iniziativa economica, ne usciranno
stravolte. Ancora una volta, la presenza della ’Ndrangheta
produrrà effetti eversivi dell’ordine democratico
e costituzionale, concetto nel quale è compreso l’ordine
pubblico economico.
I fatti di cronaca delle ultime settimane – attentato
con bazooka, ritrovamenti di quantità ingenti di espolsivo
– possono presagire un salto di qualità nell’azione
delle cosche?
Non credo si possa affermare che vi sia una escalation nell’uso
della violenza. I metodi della ’Ndrangheta hanno sempre
conosciuto l’uso delle armi, dell’esplosivo, della
strage, quando esso si è reso necessario nella logica
di potere interna ed esterna. Ciò tuttavia non deve
far pensare ad una stagione stragista indiscriminata. La ’Ndrangheta
ha sempre rifiutato l’opzione stragista anche quando
Cosa Nostra la sollecitava ad aderire alla sua linea negli
anni ’92 e ’93 e dunque non penso che vi sia un
cambiamento in atto. Occorre però aggiungere che in
tutti questi anni la ’Ndrangheta ha continuato ad acquistare
armi pesanti ed esplosivo e questo non può non costituire
motivo di preoccupazione e di massima vigilanza.
Come spiega questa attività anche in tempi di relativa
pace tra le famiglie? È possibile ipotizzare un rapporto
con terroristi internazionali, a livello anche solo di appoggi
logistici o scambio di armi?
La possibilità di scambio di armi ed esplosivo con
centrali terroristiche internazionali, dell’Est europeo
e, oggi, anche del terrorismo islamico, è concreta,
e in qualche caso verificata. D’altra parte gli uomini
della ’Ndrangheta hanno collegamenti con tutti gli ambienti
criminali internazionali, di qualsiasi genere e tipo e dunque
non c’è da sorprendersi di questo. Molte di queste
conoscenze sono dovute a comune detenzione, altre sono state
stabilite sui mercati internazionali di droga e armi.
Lei ritiene che lo Stato investa abbastanza nella lotta a
questa organizzazione?
Sicuramente no. Si tratta di una emergenza nazionale, dico
meglio, europea, trattata spesso in modo burocratico e disattento.
Le sottovalutazioni, siano colpose o dolose, sono state costanti
e continuano tuttora. Iniziano dal Csm che non si è
mai preoccupato della scelta di capi degli uffici particolarmente
idonei ad operare in zone di mafia, dalla Commissione parlamentare
antimafia che non elabora proposte normative ed operative
utili sul piano dell’azione di contrasto, dagli organi
ministeriali deputati alla selezione dei responsabili dell’ordine
pubblico nelle province di ’Ndrangheta. In qualche caso,
si è assistito, come si rileva dalla recente indagine
della Dda di Catanzaro, ad una sorta di gradimento che esponenti
mafiosi esprimono su prefetti e questori, che influiscono
su nomine e trasferimenti.
Pensa che il piano per la Sicurezza presentato da Pisanu possa
essere efficace?
Deve essere giudicato per ora a livello politico, mentre gli
effetti potranno essere valutati tra qualche tempo. Non mi
sembra tuttavia che esso contenga scelte strategiche nuove
e diverse da quelle tradizionali. È inutile affermare
che la ’Ndrangheta è oggi il fenomeno criminale
più diffuso, potente e pericoloso se poi non si adottano
misure pari al livello dell’obiettivo.
Qual è lo stato dell’antimafia in Calabria a
livello di magistratura e di forze dell’ordine? Le forze
sono sufficienti? Esistono le spaccature presenti in certe
procure esposte come quelle di Palermo?
Le Dda di Reggio e Catanzaro hanno prodotto dal 1992 ad oggi
una lunga e importante serie di indagini che si sono poi concluse
con condanne pesanti nei confronti di centinaia di esponenti.
Non c’è cosca che non sia stata indagata e colpita,
non c’è esponente di spicco che non sia stato
arrestato e giudicato. Centinaia sono gli ergastoli inflitti,
migliaia gli anni di reclusione. Le forze dell’ordine
hanno svolto un ottimo lavoro, ma non si può pensare
che il lavoro sia concluso. Tutt’altro. La ’Ndrangheta
si riproduce rapidamente, cambia strategie, tattiche, settori
di intervento, modalità di comportamento. Bisogna indagare
sempre senza adagiarsi sui risultati conseguiti. Eventuali
debolezze, spaccature e quant’altro si traducono immediatamente
in vantaggi poderosi per le organizzazioni, che colgono immediatamente
queste evenienze per inserirsi in esse, quando non sono esse
stesse a provocarle, al fine di disarticolare l’azione
di contrasto. Recenti indagini lo confermano.
E a livello di antimafia sociale? Palermo ha avuto la su “primavera”,
Reggio Calabria no...
La società civile calabrese è debole e disorganizzata.
Ci sono confusione e paura. Comitati e gruppi che apparentemente
si occupano di legalità e giustizia sono in qualche
caso espressione di interessi mafiosi o strumentalizzati alla
politica. In altri casi si assiste a volenteroso attivismo,
a dichiarazioni generiche che evitano accuratamente di confrontarsi
su temi, argomenti e personaggi specifici.
Perché la ’Ndrangheta produce pochi “pentiti”?
Quanti sono attualmente?
Attualmente sono un centinaio, non pochissimi dunque, e una
decina i testimoni di giustizia. Mancano, a differenza di
quanto è avvenuto per Camorra e Cosa nostra, pentiti
che abbiano ricoperto ruoli di vertice, che siano in grado
di riferire sulle decisioni, sugli affari, sulle alleanze,
sui rapporti internazionali, sugli accordi con la politica.
E tuttavia il fenomeno del pentitismo non si è esaurito,
nonostante tutto, e questo è un dato positivo. Nel
corso del 2004 si sono registrate alcune importanti, nuove
collaborazioni, che hanno consentito di aprire nuovi squarci
di verità su vicende ancora inesplorate.
Lei ritiene che la nuova legge, che risale al gennaio 2001,
abbia indebolito questo strumento?
Non ha certo aiutato nuove collaborazioni. Accanto a misure
condivisibili, ve ne sono altre discutibili, quale, tra tutte,
il limite di 180 giorni per rendere dichiarazioni, palesemente
insufficiente nel caso di collaboratori di grosso rilievo.
A questo si accompagnano altre norme, come quelle sull’estensione
del giudizio abbreviato e del patteggiamento, attraverso le
quali gli imputati riescono, anche in caso di condanna per
gravissimi reati, a spuntare grossi sconti di pena dal momento
che i benefici sono cumulabili nel corso del medesimo processo.
Chi prima decideva di collaborare per evitare la prospettiva
dell’ergastolo oggi non ha più interesse a farlo
dal momento che l’ergastolo di fatto non si applica
più se non in casi rarissimi.
Ci sono diversi personaggi che sono diventati uomini simbolo
della lotta a Cosa Nostra: Falcone, Borsellino, Impastato,
Chinnici, don Puglisi e tanti altri. A loro vengono dedicati
film, fiction, spettacoli teatrali. Di loro sappiamo molto,
anche umanamente. Perché, invece, di chi contrasta
la ’Ndrangheta si sa poco o nulla?
Forse nell’azione di contrasto sono mancati gli uomini
simbolo che la Sicilia ha invece avuto: anche questo ha costituito,
in fondo, motivo di scarsa visibilità del fenomeno,
ma non penso che sia poi un grosso problema. È importante
non tanto la presenza di singoli, per quanto di grande valore,
ma di strutture efficienti e organizzate, di esperienze operative
consolidate, di capacità di visione strategica di medio
e lungo termine. La scelta degli uomini che guidano le strutture
investigative e giudiziarie preposte all’azione di contrasto
deve rispondere ai requisiti che ho detto prima. Non posso
dire che sia stato questo il criterio che ha sempre guidato
tali nomine.
Lei è particolarmente esposto nella lotta alla mafia
calabrese. Quali ripercussioni sulla sua vita privata?
Non mi piace parlare di me. Non mi sento recluso, né
isolato, ma parte attiva di una struttura efficiente, organizzata
compatta, come la Direzione nazionale antimafia, che a sua
volta coordina le strutture territoriali (le Dda) preposte
alle indagini sui reati di stampo mafioso. Quello che voglio
fare rilevare è che è normale e scontato che
le organizzazioni mafiose tentino di ostacolare il nostro
lavoro con ogni mezzo. Meno scontato è che ostacoli
ancora maggiori di quelli mafiosi provengano da determinati
ambienti istituzionali, politici, sociali, che dovrebbero
invece affiancare e sostenere l’operato della magistratura.
Lei crede veramente che la ’Ndrangheta possa essere
sconfitta?
A patto che non si verifichino quelle condizioni di contiguità
che le ho appena indicato. Una mafia che non sia sostenuta
da collaboratori esterni politici e istituzionali avrebbe
certamente maggiori difficoltà a difendersi da una
azione di contrasto intelligente ed organizzata, protratta
nel tempo e inserita in un contesto europeo e internazionale
di collaborazione.
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