I
Riza… La lunga radice dei Greci di Calabria
Allargando gli orizzonti… dall'Italia bizantina alla
Calabria bizantina
Alla morte di Atalarico, nipote e successore di Teodorico,
nel 534 gli insanabili scontri ereditari fra i Goti diedero
all'imperatore d'Oriente, Giustiniano I (527-565) l'atteso
pretesto per intervenire in Italia. In generale questo faceva
parte di un complessivo piano di riconquista della sezione
occidentale dell'Impero considerata parte della comune eredità
romana. Inoltre, senza dubbio, i bizantini trovavano nell'Italia
meridionale genti di comune radice culturale, gli eredi ellenofoni
della Magna Grecia. Com'è noto, l'anima latina e quella
greca avevano da sempre convissuto nella storia dell'Impero
Romano in quella magnifica osmosi civile che ben conosciamo.
A proposito dell'identificazione culturale con l'Impero medesimo
bisogna notare che i Bizantini definivano essi stessi Romioi
in altre parole Romani. Lo stesso cognome Romeo tutt'oggi
presente nella Calabria di radice bizantina significa, in
greco, "romano".
Lo scontro fra Goti e Romei durerà circa vent'anni,
dal 535 al 554, stremando non solo i combattenti quanto la
stessa Italia campo di battaglia ed oggetto della contesa.
La "pacificazione" dell'Italia resse ben poco. Nel
568, infatti, l'invasione longobarda sconvolse gli equilibri
della Penisola costringendo i Bizantini ad una coabitazione
con i vari principati longobardi che si vennero a creare in
vari punti d'Italia. In linea di massima per qualche tempo
i longobardi si attestarono maggiormente nel nord lasciando
l'area meridionale all'Impero d'Oriente. Già dal VI
secolo, in ogni modo, i domini bizantini d'Italia vengono
organizzati politicamente in Esarcato (In questo stesso periodo
s'inizia ad utilizzare la parola exarchos con il significato
di comandante militare supremo). L'Esarca d'Italia era così
l'autorità suprema della Penisola. Sino alla conquista
longobarda del 751, sede dell'Esarcato rimase Ravenna data
la sua posizione strategica anche per il controllo dell'Adriatico.
Già all'inizio del VII secolo il territorio bizantino
in Italia si era ridotto alla Laguna Veneta, alla Romagna,
alle Marche settentrionali, allo stretto corridoio umbro della
Via Armerina al Ducato di Roma, a quello di Napoli alla costa
pugliese ed a quello calabrese a sud del Crati. Sardegna e
Sicilia appartenevano all'Esarcato d'Africa. Solo verso la
fine del VII secolo la Sicilia stessa fu trasformata in Tema
con giurisdizione anche sulla Calabria. In quello stesso periodo
il nome Calavrìa fu trasferito dalla Terra Salentina
all'antico Bruttium. L'odierna Calabria appunto.
Nei primi decenni del IX secolo iniziò la conquista
araba della Sicilia promossa dagli Aghlabiti. La conquista
della Sicilia non fu contrastata decisamente poiché
il potere centrale pareva più preoccupato di difendere
gli stessi Balcani insidiati dall'espansione islamica (Gli
arabi avevano, infatti, presa Creta nel 826). La presenza
araba in Sicilia favorì anche sul continente la diffusione
di truppe mercenarie nordafricane al soldo degli stessi duchi
bizantini. Questo comportò una convivenza non sempre
facile fra le milizie saracene e le popolazioni locali. Doveva
essere veramente labile, sotto tutti i punti di vista, agli
occhi degli abitanti la distinzione fra l'arabo che piombava
sulle coste calabresi per una scorreria e quello presente
più stabilmente "per lavoro", come mercenario
militare. Si tratta, comunque, del segno di una situazione
forzatamente "multietnica", diremmo con parole d'oggi,
ma resa ancor più precaria dai rapporti altalenanti
dei bizantini con i principati longobardi (oscillanti fra
atteggiamenti di vassallaggio e di rivalità con il
mondo bizantino). Questi erano, infatti, presenti nello stesso
Mezzogiorno ed anche alle loro dipendenze operavano spesso
milizie di ventura saracene confondendo ulteriormente lo scenario.
Sotto il profilo politico, nonostante la caduta della Sicilia,
la Calabria continuò ad essere ad essa assimilata sino
al X secolo. Solo allora l'amministrazione bizantina inizierà
a riconoscere "ufficialmente" la sconfitta siciliana
ed a varare il Tema tis Calavrìas. D'altra parte l'amministrazione
del Tema di Calabria non si presentò facile per i bizantini.
Le lunghe coste della regione erano quasi impossibili da controllare
tutte e le incursioni saracene erano continue e devastanti.
La presenza araba in Calabria, per tutto il periodo bizantino
assunse probabilmente anche caratteristiche pressoché
stanziali. Le milizie di ventura saracene significavano anche
l'aggregazione di vere e proprie comunità legate alla
loro attività. Reggio Calabria deve essere stato a
lungo una città multilinguistica e multireligiosa con
elementi latini, greci ed arabi e con forme di culto differenti
che convivevano di fatto. Toponimi stessi come quello del
paese aspromontano di Bagaladi si potrebbero far risalire
a forme arabe come Baha Allah (Benedetto da Dio).
Alla fine del IX secolo Reggio, riconosciutamente capitale
religiosa della Calabria, fu elevata al rango di metropoli.
Tale Leone o Leonzio, è menzionato come metropolita
al sinodo costantinopolitano del 879/880. L'ascesa di "prestigio"
della Calabria fu, probabilmente, anche dovuta alla progressiva
perdita del Tema di Sicilia, sino alla rovinosa conquista
e saccheggio di Siracusa da parte degli arabi nel 878. Quando
ciò era possibile, la politica bizantina faceva coincidere
la capitale di un Tema ad un centro spirituale. Così
Reggio divenne epicentro spirituale di gran parte della Calabria.
Sue suffraganee erano le sedi episcopali di Vibo, Taureana,
Locri, Rossano, Squillace, Tropea, Amantea, Crotone, Cosenza,
Nicotera, Bisignano e Nicastro. Nello stesso periodo nella
Calabria settentrionale sotto la metropoli di Santa Severina
erano riunite le diocesi suffraganee di Umbriatico, Cerenzia,
Isola Capo Rizzuto e Gallipoli. La presenza di questa diocesi
pugliese, lontana via terra ma non altrettanto via mare, era
dovuta probabilmente alla necessità di subordinare
alla più vicina nuova diocesi una città ricostruita
e ripopolata recentemente per ordine di Basilio I dopo le
devastazioni arabe. Naturalmente tutta quest'attenzione da
parte dell'Impero alla buona organizzazione delle diocesi
di rito greco va ricondotto al secolare braccio di ferro fra
Bizantini e Papato. Entrambi giocavano a mantenere la giurisdizione
sulle proprie diocesi in una continua contrapposizione fra
rito romano e orientale e naturalmente miravano ad acquisirne
altre.
A tale complessiva riorganizzazione della Calabria e della
Puglia sotto Basilio I, si deve anche l'operazione di ripopolamento
delle province stremate demograficamente dalle guerre con
gli arabi. Ripopolamento parzialmente conseguito con immigrazioni
forzate di servi orientali e nel caso della Calabria anche
con congrui contingenti militari armeni. Oltre che varie tracce
nell'onomastica calabrese, di questa immigrazione permane
il toponimo di Rocca Armegna, in italiano Rocca degli Armeni.
Il paese fondato con l'insediamento di un contingente militare
armeno ebbe per alcuni secoli importanza strategica grazie
all'imponente castello. Fu abbandonato dagli abitanti solo
ai primi del '900. La deportazione di popolazioni barbare
o servili era un'antica tradizione del mondo bizantino. Spesso
ove necessitavano contadini/soldati, nelle zone di frontiera
o a rischio militare l'Impero provvedeva con questo strumento
a rafforzare la propria presenza. Questo, verosimilmente,
costava meno dell'invio di milizie dalla capitale. D'altra
parte, la disponibilità militare di Bisanzio verso
i suoi confini occidentali fu sempre molto più debole
rispetto alla maggiore attenzione dedicata ai confini asiatici
e balcanici. La stessa ricca Sicilia venne persa per queste
ragioni. I nemici del momento, arabi, longobardi o normanni
che fossero venivano tenuti a bada più con la diplomazia
e la corruzione o il versamento di tributi talvolta anche
molto pesanti che con il vero e proprio ricorso alle armi.
Come in tutto il mondo bizantino, la spiritualità aveva
un ruolo centrale nella vita sociale e culturale. Il monachesimo
greco, essenzialmente laico, ne fu il motore principale. Per
ogni ceto sociale, dai nobili ai contadini, il monaco rappresentava,
nel mondo bizantino, un vero modello esistenziale. Anche in
Calabria, come in tutto l'Impero, fu elevato il numero dei
monasteri privati costruiti spesso nei luoghi più impervi
ed inaccessibili per garantire l'isolamento e la quiete che
i monaci cercavano. Esempio più alto del monachesimo
calabrese è senza dubbio la figura carismatica di San
Nilo di Rossano. Di alta levatura morale e raffinata cultura
egli godette di una certa fama ed autorità già
in vita nonostante il grande rigore della sua scelta ascetica.
L'agiografia monastica calabrese sotto i bizantini è
ricchissima tanto da far meritare alla regione l'appellativo
di aghiotokos ovvero "madre di santi".
Sotto il profilo economico la coltura del gelso era senza
dubbio quella più redditizia in Calabria. Si trattava
di gelsi da foglia piuttosto che da frutto, "mirati"
alla sericoltura. La coltivazione di questa pianta subordinata
a lunghi tempi di attesa prima di essere redditizia (circa
10 anni) era soprattutto nelle mani della Chiesa e dunque
dell'Imperatore poiché nel mondo bizantino produzione
e smercio della seta erano rigorosamente controllati dallo
Stato. La presenza documentata di migliaia di alberi produttivi
ci restituisce un'immagine della Calabria bizantina come in
realtà molto ricca più che depressa dalle guerre
e dagli scontri continui con gli arabi come nei luoghi comuni
storici.
A livello commerciale il Tema bizantino di Calabria ebbe solidi
rapporti con la Sicilia araba che costituiva mercato per le
sue sete. Tant'è che invece del Nomisma circolava il
Tarì, moneta araba battuta in Sicilia. C'è in
ogni caso da notare che il Tema bizantino pagava anche agli
scomodi vicini un pesantissimo tributo annuale in cambio della
limitazione di razzie e scorrerie.
In epoca bizantina va rintracciata la radice della tendenza
allo spostamento degli insediamenti dal mare alla montagna
per motivi sia difensivi sia di salubrità data la condizione
di palude di buona parte delle zone costiere. Questo è
rimasto sino ad ora un aspetto caratterizzante del paesaggio
antropizzato in Calabria anche se proprio nel XX secolo si
è assistito al processo opposto: l'abbandono dei siti
interni per quelli costieri più facilmente raggiungibili.
Nuovi e decisivi protagonisti sulla scena storica del Mezzogiorno
bizantino sono i Normanni. Giunti inizialmente come milizie
di ventura nei primi anni del sec. XI, i cavalieri del Nord
intrapresero la conquista sistematica sia dei temi bizantini
sia della Sicilia araba debolmente retta dai Kalbiti. Gli
eventi precipitarono anche in relazione al grande scisma del
1054 che separò la chiesa costantinopolitana da Roma.
Ciò sancì il sostanziale appoggio del Papa ai
Normanni contro i Bizantini scismatici. Inoltre Roma, da tre
secoli, non si rassegnava alla perdita delle diocesi siciliane
e calabresi poste sotto il controllo diretto di Bisanzio.
Di queste e da sempre meditava la riconquista. Nel 1059 Roberto
il Guiscardo prendeva Reggio e nel 1071 con la caduta di Bari
si poteva considerare concluso il dominio politico dei bizantini
sul Sud d'Italia e l'inizio della massiccia latinizzazione
del culto e della lingua, specialmente in Calabria e Sicilia.
Mille anni di lentissimo declino della Grecità in Calabria
Sta di fatto che la latinizzazione religiosa che era stata
più rapida altrove trovò in Calabria una certa
resistenza, addirittura apparente protezione presso i nuovi
padroni normanni. Attenzione però a non immaginare
una sorta di mondo bizantino intatto "senza Bisanzio".
Già sotto i normanni se per alcuni decenni l'aristocrazia
culturale greca in tutto il Sud Italia e in larga parte della
Calabra otterrà un certo rispetto, dall'altra parte,
in modo irreversibile, inizia la crisi del mondo ellenofono.
I normanni stessi impiantavano esclusivamente nuove diocesi
latine. Per motivi di prestigio, per non essere socialmente
declassato, il clero greco si latinizzò. I bizantini,
dunque, non sbagliavano a considerare strategico il legame
fra centri politici e centri spirituali. La rarefazione dell'ellenofonia
in Calabria può così essere parzialmente dovuta
alla progressiva latinizzazione delle diocesi. Come osserva
Vera von Falkenhausen, alla fine del periodo Svevo gli ellenofoni
superstiti erano in genere contadini analfabeti incapaci di
gestire le istituzioni religiose ed economiche greche. Sostanzialmente
la cultura greca cambiò collocazione a tutto suo svantaggio.
Da cultura dominante divenne cultura subalterna, sempre più
legata ai ritmi ed alle funzionalità di un mondo interamente
orale come quello pastorale e contadino. La latinizzazione
che diverrà vorticosa dal XV secolo in poi verrà
sia incoraggiata dall'avvicendarsi di dominatori di sicura
fede romana (Angioini, Aragonesi, Spagnoli) sia, alla fine,
dallo stesso clima della Controriforma.
La presenza di comunità ellenofone, per quanto subalterne
continuò ad avere un suo ruolo nel contesto mediterraneo.
La Calabria meridionale era ancora sostanzialmente ellenofona
ancora fra il XIV ed il XV secolo. Tutt'oggi fortissime sono
le tracce di questa presenza linguistica e culturale nella
toponomastica, nell'onomastica, nel cosmo etno-antropologico,
nei dialetti romanzi stessi di tutta la regione ma in particolare
nel suo segmento centro-meridionale. Sino a quando sopravvisse
l'Impero d'Oriente, sotto i Normanni e poi con Federico II
sino a circa al 1600 probabilmente i rapporti intermediterranei
fra ellenofoni"d'occidente" e madrepatria linguistica
rimasero in qualche modo attivi, favoriti anche dai commerci
delle repubbliche marinare e dalla continua attività
dei marinai greci. Non si può, inoltr, escludere una
certa quantità di migrazioni verso occidente dai Balcani
e dalle Isole greche che andarono a rimpinguare la presenza
ellenofona in Calabria, in particolare nel periodo di massima
pressione turca. La spinta turca sui Balcani e sul Mediterraneo
continuò nonostante il freno posto dalla storica sconfitta
di Lepanto ad opera della flotta "cristiana"(1571).
Alcuni decenni dopo Cipro, anche Creta nel 1669 cade dopo
un assedio che durava dal 1644. Come dato di fondo non bisogna
trascurare che storicamente l'Italia (ed il particolarmente
accessibile Mezzogiorno) è sempre stata vista dai popoli
balcanici come sponda utile in gravi momenti di crisi. Si
pensi all'epica migrazione degli Albanesi di Skandeberg come
alle recenti ondate di immigrazioni clandestine.
A proposito della lunga resistenza del rito greco in Calabria,
sta di fatto che l'ultima diocesi orientale a cadere fu proprio
Bova (Vùa) nel 1572. La romanizzazione, ironia della
sorte, avvenne proprio per mano di un vescovo di origine cipriota
e dunque egli stesso orientale, Giulio Stavriano. La comunità
locale si vide privata del rito greco con un vero e proprio
colpo di mano con il quale da un giorno all'altro venne instaurato
quello romano.
IL XIX secolo si "accorge" dei greci di Calabria
La presenza di ellenofoni in Calabria finì per passare
sotto silenzio per secoli. Probabilmente per le condizioni
di marginalità della regione che si accentuarono fortemente
già dal XIII secolo sino a divenire drammatiche con
l'unificazione nazionale. Nell'ottocento la Calabria ellenofona
doveva già probabilmente limitarsi all'Aspromonte jonico
meridionale, e molto probabilmente, alla locride in un'area
geografica poco raggiungibile anche dalla stessa Reggio Calabria.
Il territorio impervio dell'Aspromonte, con il suo isolamento,
garantì la permanenza di un'economia chiusa, diremmo
di autarchica sussistenza sino a in sostanza la seconda guerra
mondiale. Questo cosmo sostanzialmente autosufficiente consentì
la resistenza dell'idioma. "Scopriranno" la presenza
dei greci di Calabria (e di Puglia) alcuni folcloristi del
XIX secolo sull'onda della generale moda europea che spingeva
alla raccolta dei cosiddetti "canti popolari" e
che in Italia aveva avuto una sequenza di illustri cultori:
Tommaseo, Imbriani, Nigra, Rubieri, D’Ancona, Pitrè
(per fare alcuni nomi noti ancora oggi) sino a Comparetti.
Dal nostro punto di vista registriamo come particolarmente
interessante, anche se esigua, la presenza del mondo grecanico
nella letteratura demologica ottocentesca. Si "scopriva"
che, oltre al Salento, anche un oramai ristretto numero di
paesi dell'Aspromonte meridionale conservava la parlata greca.
"Saggi dei Dialetti Greci dell’Italia Meridionale"
di Domenico Comparetti che esce nel 1866 è un esempio
indicativo di questo rinnovato interesse. Nella sua stessa
presentazione ai "Saggi", Comparetti traccia un
panorama di edizioni sulla lingua dei greci di Calabria e
di Puglia piuttosto limitato ancora oltre la metà dell’Ottocento
e lascia chiaramente intendere quanto la stessa esperienza
di Cesare Lombroso, che lo aveva preceduto con una sorta di
diario di viaggio in area grecanica non fosse qualitativa
filologicamente poiché costituita in tutto da "una
ventina di versi in pessimo stato, ed un piccolo numero di
vocaboli raccolti a Bova, o nei paesi greci prossimi a questa".
Comparetti, per conto suo, fa presente molto chiaramente ed
onestamente di aver attinto a fonti scritte senza mettere
mai piede a Bova. Dei trentotto canti del suo corpus, ben
trentacinque provengono da una raccolta effettuata nella Chora
da un professore del Liceo Classico di Reggio Calabria, tale
Tarra (altrove Terra). Gli altri tre, raccolti nel 1821 da
Witte, sempre provenienti da Bova, gli arrivano dopo numerose
trascrizioni ed edizioni fra cui la più rilevante è
la raccolta di canti greci del Passow. Nonostante siano pervenuti
a noi solamente nella forma del testo questi canti conservano
per il lettore un innegabile fascino.
Una migliore attenzione non sarà su altri versanti
riservata ai greci di Calabria dal citato Cesare Lombroso
la cui osservazione, fra il positivista e l’antropometrico,
rimanda più ad archivi ed a tassonomie animali che
ad un vero discorso su una realtà culturale e la sua
alterità. Così sono descritti gli abitanti dell’Aspromonte
ellenofono in alcune pagine del suo "In Calabria"
un testo definitivamente edito nel 1898 ma che era già
apparso sin dal 1862 sulla "Rivista contemporanea":
Molti di essi, specialmente i ricchi, conservano il tipo dell’Attica;
fronte alta, spazio interoculare largo, naso aquilino, occhi
grandi e lucidi, labbro superiore corto, bocca piccola, cranio
e mento arrotondati, tutte le linee del corpo dolci ed aggraziate.
Il loro temperamento è linfatico e nervoso; fini, astutissimi,
lascivi hanno grande mobilità di idee, tendenza al
procaccio, e un poco al furto, somma facilità al canto
e all’armonia.
Mentre sentiva a suo modo l'urgenza di "trascrivere quelle
pochissime strofe prima che la stregua dell’Unità
giunga a cancellare queste ultime e prestigiose vestigia dell’ellenismo".
E pur nelle patenti superficialità filologiche denunciate
da Comparetti, Lombroso ebbe comunque lo scrupolo di fornire
almeno alcune sempre sommarie descrizioni della realtà
sociale ed economica dei greci di Calabria.
Sul versante storico-linguistico sono Morosi e Pellegrini
ad "accorgersi" dei greci di Calabria (A. Pellegrini,
Il dialetto greco-calabro di Bova, Torino, 1880) ma le loro
ipotesi sull'origine della presenza ellenofona in Calabria
per immigrazione dal mondo bizantino fra il VI e il X secolo
non sono oggi accreditate dagli studiosi
Luigi Borrello (Bova1871 - Palermo 1949) è senz'altro
in questa fase storica una figura importante. In primo luogo
perché bovese e quindi osservatore privilegiato della
cultura locale. A lui si devono una serie di importanti note
che furono fondanti per gli studi successivi sul greco di
Calabria.
Il XX secolo e la profonda crisi del mondo greco-calabro
Il più qualitativo interesse del mondo scientifico
e culturale verso i greci di Calabria che si generò
soprattutto nella seconda metà del '900, non riuscì
ad incidere socialmente intervenendo sull'irreversibile crisi
della lingua grecanica. "Grecanico" ("Piccolo"
greco, greco "minore" a rilevare il carattere dialettale
della lingua locale differenziandola dal greco della Madrepatria,
il Neogreco) è in ogni modo un'espressione di origine
colta. I greci di Calabria definiscono sé stessi greki,
taluni considerano l'espressione "grecanico" addirittura
offensiva preferendo altre dizioni quali: greco di Calabria,
greco-calabro, etc..
Il XX secolo portò con sé la crisi del grecanico
per le enormi trasformazioni sociali ed economiche che la
cosiddetta "modernità" aveva ingenerato nell'area,
prime fra le altre le scelte antimeridionaliste dello stato
unitario, l'emigrazione e lo spopolamento delle aree interne.
Non sono da trascurare inoltre fattori psico-sociali importanti.
Difatti già dal ventennio fascista in poi la lingua
ed il mondo greco-calabro erano identificati come tratti di
arretratezza e di sottosviluppo da "dimenticare"
al più presto. I maestri infliggevano umilianti punizioni
agli alunni sorpresi a parlare una lingua "straniera"
in classe e varie testimonianze confermano che una delle più
comuni espressioni, utilizzata per dare dell'idiota a qualcuno
nella stessa Bova degli anni '30-'40, era "mi pari nu
grecu". Sicuramente da quel momento storico in poi il
grecanico venne identificato dalle stesse popolazioni locali
con il sottosviluppo economico e l'emarginazione sociale.
Nel frattempo una serie di frane e di alluvioni che dagli
anni '50 in poi colpirono le comunità dell'interno
finirono per disperdere materialmente le comunità medesime
e con esse la lingua. I borghi pastorali e contadini venivano
"ricostruiti" in anonimi paesi dormitorio sulla
costa a decine di chilometri dal sito originario, gli abitanti
trasferiti in massa. Questa sorte toccò ad Africo nel
1951 ed a Roghudi nel 1972. Ma sia pressoché contemporaneamente
Gallicianò che anni dopo la stessa Bova (frane nel
1972/73 e terremoto nel 1978) non furono esenti da tentativi
di trasferimento completo dell'abitato più o meno fondati
su disastri naturali o appoggiati da speculazioni politiche.
E' da considerarsi miracolosa la resistenza degli abitanti
nei pochi borghi ellenofoni che oggi sopravvivono nell'interno
in particolare per le difficili condizioni logistiche (oltrechè
economiche): ancora senza strada asfaltata è Gallicianò,
la stessa "capitale morale", i Chora tu Vùa,
Bova è collegata da un impervio tracciato di primo
'900.
Attorno al 1920 il greco di Calabria scompariva da Cardeto
per poi limitarsi a cavallo delle due guerre ad Amendolèa
(Amiddalia), Bova (Vua), Gallicianò (Gaddicianò),
Condofuri (Condochuri), Roccaforte del Greco (Vunì),
Roghudi (Richùdi).Sicuramente scomparve ancor prima
dall'uso quotidiano anche a Pentedattilo, Palizzi, Staiti,
Brancaleone e la stessa Africo fra XIX e XX secolo anche se
dati precisi in tal senso non sono a nostra conoscenza.
Oggi il greco di Calabria è parlato dalle fasce generazionali
anziane di Bova, in modo più diffuso ma frammentato
e quasi mai pubblico a Gallicianò ed a Roghudi Nuovo.
In casi oramai isolati a Condofuri ed Amendolèa. Si
può considerare scomparso da Roccaforte.
Si deve comunque alla fondamentale attività del grande
filologo tedesco Gerhard Rohlfs (Berlino 1982 - Tubinga 1986)
ed alla sua capillare ricerca "sul campo" se molto
del patrimonio linguistico ellenofono è stato salvato.
La sua attività già a partire dagli anni '20
finì, in particolare dopo la guerra, per aggregare
intorno a sé ed ai suoi fondamentali scritti tutta
una serie di giovani entusiasti sia in Italia che all'estero.
Sin dagli anni '60 assolutamente rilevante fu l'attività
di ricerca e di animazione di un gruppo di giovani storici
e filologi calabresi che diede successivamente vita sia all'Associazione
Culturale "Calavrìa" (1986) che al periodico
"La Jonica" (edito dal 1969 al 1980), in particolare
Domenico Minuto, Franco Mosino e Velia Critelli. Gli anni
'50 rappresentarono un autentico momento di fioritura degli
studi sui greci di Calabria, da Rossi Taibbi e Caracausi a
Benito Spano al greco Karanastasis che con i cinque volumi
del suo "Vocabolario Storico dei Dialetti Greci dell’Italia
Meridionale" contribuì alla sistemazione del prezioso
bagaglio linguistico dei greci di Calabria e di Puglia.
Gli anni '60 e '70 furono comunque decisivi per la nascita
di una coscienza collettiva da parte dei greci di Calabria
circa l'importanza del proprio patrimonio linguistico. Iniziarono
così a nascere una serie di associazioni culturali
che saranno poi più o meno attive nel sostenere il
recupero e la salvaguardia delle radici culturali. Fra le
varie associazioni culturali nate nel tempo segnaliamo come
particolarmente attive "Kum.el.ka" di Gallicianò
e "Ialò tu Vùa" di Bova Marina.
La legge di tutela delle minoranze etniche (15 dic. 99 n.
482) apre nuove prospettive per i greci di Calabria. Fra gli
altri progetti ci si augura che prenda ufficialmente l'avvio
l'attività dell'I.R.S.S.E.C. (Istituto Regionale Superiore
Studi Elleno Calabria) di cui per il momento esiste già
la struttura a Bova Marina.
.Cosa leggere sul mondo bizantino:
- G. Ostrogorsky, Storia dell'Impero Bizantino, Torino, 1968
- V. Von Falkenausen, La dominazione bizantina nell'Italia
Meridionale dal secolo IX al secolo XI°, Bari, 1978
Storia orale:
Per quello che riguarda la storia orale il più rilevante
archivio audiovisivio sui greci di Calabria (e sulla Calabria
meridionale) è:
Archi/Med (Archivio Audiovisivo di Med Media)
Via Foro Boario, 2
89133 Reggio Calabria
0965.591039 e-mail: info@med-media.it
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