Il
termine Graecanicus
compare inizialmente,
a quanto ci è dato sapere,
ai primi del secolo XV in una relazione che Giovanni Epifanio,
abate di
Nardò in terra d'Otranto, mandava al papa Giovanni
XXIII, sullo stato
antico e recente di quella chiesa. E, sul finire dello stesso
secolo,
il Galateo scriveva nel suo opuscolo a proposito della città
di
Gallipoli: Sentio enim hic aliquid Graecanicum. Agnosco, imo
olfacio
Graecanicos quosdam ritus, quamvis haec urbs, consenescente,
et in
occasum vergente Graecia, ut caeterae Italiae urbes, graecam
linguam,
qua me puero utebatur, omiserit; mores tamen non penitus omisit.
Da
quel momento in poi il termine Grecanico fu adoperato per
indicare più
vastamente i Greci di Calabria e di Puglia , i quali ultimi,
vengono
chiamati anche col termine di Griki. Resta comunque da segnalare
che
sarebbe più opportuno definire gli attuali abitanti
dell'isola
ellenofona col termine di calabro-greci, e col termine di
grecanici gli
abitanti della Calabria che un giorno fu greca.
Un'altra testimonianza sul termine grecanico la dobbiamo al
Breve di
Pio IV (1564). Qui si riporta infatti una norma di garanzia
per la
comunità greca la quale era stata comunque sottoposta
alla
giurisdizione degli ordinari del luogo: Per hoc tamen non
intendimus,
quod ipsi Graeci ab eorum Graecanico ritu abstrabantur, vel
alia
desuper quoquomodo per locorum Ordinarios, aut alios impediantur.
La fine del
rito greco in Calabria
La storia dei paesi
greci di Calabria segna una profonda battuta
d'arresto con la fine del rito greco nella diocesi di Bova
e la quasi
completa latinizzazione del territorio.
Non v’è stato storico sufficientemente asservito
ai nuovi padroni, che
non si sia sforzato di dimostrare che il rito greco doveva
scomparire
per consunzione naturale e a causa dell’ignoranza dei
suoi preti. Le
accuse più varie si accumularono su di essi: rilassatezza
dei costumi,
avidità di ricchezze, vita scostumata, ignoranza dei
testi di liturgia.
In realtà una serie di concomitanze furono utilizzate
per la
soppressione del rito greco a Bova, così come in verità
era stato per
le altre diocesi. Innanzi tutto v’è da segnalare
che la classe che a
Bova deteneva il potere economico e politico era quella dei
proprietari
terrieri e certamente si palesava più aperta verso
le innovazioni che
venivano dalla città. La lingua da loro parlata, oltre
al grecanico,
per i continui contatti con il mondo esterno che li circondava,
era
anche il dialetto calabrese neolatino. Evidentemente nel contatto
con
le genti delle altre città si sentiva a disagio nel
parlare una lingua
diversa e nel professare un’altra fede religiosa. E’
chiaro che i ceti
dominanti in Calabria erano ormai tutti di confessione latina
e di
lingua italo-calabra per cui non ebbero remore a schierarsi
con quel
mondo che essi consideravano più civile. Così
quando fu nominato
amministratore della sede di Bova Fra’ Giulio Stauriano,
che intanto
continuava a mantenere il titolo di Mègara, essi gli
furono accanto in
quel opera di demolizione del rito greco. Fra’ Giulio
prese possesso
della sua nuova sede il 30 maggio 1571 e da subito si rese
conto che
essa era una piccola e povera diocesi. I confini della sua
sede erano
delimitati dal torrente Amendolea, nel lato verso Reggio,
e dalla
fiumara di Bruzzano, verso Locri-Gerace. Pochi e inadatti
i
collegamenti tra i paesi della diocesi; cinque - seimila gli
abitanti
tutti di lingua greca; tutti posti sui monti i paesi e chiusi
da secoli
di isolamento. I loro nomi sono gli stessi, fatta eccezione
per
qualcuno, che ancora oggi appartengono all’area della
grecità e
dell’ellenofonìa: Bova, Amendolea, Gallicianò,
Roccaforte, Roghudi,
Africo, Pietrapennata, Palizzi, Brancaleone, Staiti. Bova
ne era la
capitale, “ i Chòra”, ed aveva resistito
alla latinità incalzante anche
quando tutte le altre diocesi erano state costrette a subire
il
predominio dei latini. E nonostante ciò a Bova l’attività
degli
scriptoria era ancora abbastanza fiorente. Giorgio di Costantinopoli,
nel 1552, aveva redatto una nuova edizione del Typicon di
quella
chiesa; Nicola Manglaviti trascriveva i testi allora in uso.
Poco prima
di Fra’ Giulio era stato vescovo di Bova Achille Brancia
che mal
sopportava l’invadenza del metropolita di Reggio. Ben
presto il
Brancia, suffraganeo del vescovo di Reggio, all’epoca
Gaspare dal
Fosso, aveva denunciato l’arroganza dei visitatori inviati
dai
metropoliti in una seduta del concilio di Trento, votando
contro alcune
proposte del dal Fosso. La spuntò naturalmente quest’ultimo
che
costrinse il Brancia alle dimissioni. Eppure sotto il vescovato
del
Brancia il clero aveva mantenuto una buona competenza nella
lingua e
nella liturgia ed egli stesso aveva partecipato con fervore
attivistico
al concilio tridentino. Aveva infine favorito la trascrizione
degli
ultimi codici greci di Calabria. Ma tant’è, dovette
andarsene lasciando
la diocesi in una situazione di anarchia.
Questa era la situazione che trovò Fra’ Giulio
al suo arrivo. Per prima
cosa riaprì al culto la cattedrale dell’Isodia
e vi collocò, il 23
novembre del 1572 le reliquie dei santi apostoli Andrea e
Giacomo. In
quel giorno e, più ancora dopo la solenne liturgia
del 20 gennaio 1573,
si era compiuto infatti l'ultimo atto contro la chiesa greca:
Bova,
estremo baluardo della grecità religiosa, si "consegnava"
nelle mani
della chiesa latina. Fra’ Giulio credette così
di poter uscire da quel
isolamento umano e culturale che era rappresentato dal fatto
di essere
il solo vescovo di rito greco in mezzo alle diocesi latine.
L'ironia
della sorte volle che a mutare il rito religioso a Bova fosse
proprio
un vescovo greco di origine armena: il cipriota frate Giulio
Stauriano
che, d'accordo con i notabili della città, mise i bovesi
davanti al
fatto compiuto. In realtà v'è il sospetto che
frate Giulio Stauriano
fosse stato mandato fin qui dalla Curia Romana proprio perché
la
presenza di un vescovo di rito greco avrebbe reso meno doloroso
e
traumatico il passaggio al rito latino. Le scuole di grammatica
latina
e di canto gregoriano, per le quali Fra’ Giulio continuava
a ripetere
di aver speso somme ingenti, erano infatti già funzionanti.
Né egli
mancò di affermare che era stato lo stesso papa Pio
V ad imporgli
oralmente di “ridurre il suo clero dal rito greco al
latino”. Fra’
Giulio cercò in tutti i modi comunque di nascondere
la portata reale
del suo progetto ed agì in maniera tale da mettere
tutti davanti al
fatto compiuto, come se ciò che stesse facendo, più
che essere un fatto
di una certa risonanza, non fosse altro che un mero fatto
amministrativo. Il suo primo passo fu la Parrocchia di Palizzi,
paese
in feudo agli Aragona d’Ayerbe, conti di Simeri (ancora
ne persiste il
toponimo). Dal passaggio al rito latino i feudatari e il protopapa
Pietro d’Arena ne ricavavano il vantaggio maggiore,
anche perché tutte
le proprietà della parrocchia di Sant’Anna, della
cappella di santa
Caterina e della chiesa di San Leonardo passavano in mano
ad una
comunìa della quale potevano goderne soltanto i preti
di rito latino.
Insomma, per alcuni preti, “poscia più che il
dolor potè il digiuno”,
direbbe padre Dante. E così fu! I preti greci che non
si adeguarono,
furono ridotti in miseria e sopravvissero facendo i contadini
ed
officiando nelle povere chiese rimaste in mano loro. A Bova
invece la
resistenza era maggiore ma Fra’ Giulio cercò
di aggirare gli ostacoli
recandosi a Roma con delle credenziali che non lasciavano
spazio
all’immaginazione. I notabili bovesi infatti, sapendo
che il precedente
vescovo, Achille Brancia, era in odio al cardinale Sirleto
(punto di
riferimento a Roma dei calabresi), aggiunsero alle parole
del vescovo
bovese ed a quelle del metropolita di Reggio dal Fosso, una
lettera che
doveva fungere da compiacente presentazione, avendo Fra’
Giulio - a
detta dei notabili- liberato la città “dagli
mano di faraoni et posta
in luce “
A frate Coluccio Garino, prete greco e tesoriere della cattedrale,
non
rimaneva altro che lanciare il suo anatema contro quanti avevano
favorito il passaggio dal rito greco al rito latino. Ma la
cosa non
terminò qui, sic et simpliciter, perchè non
tutte le comunità
parrocchiali si rassegnarono a "consegnarsi" nelle
mani dei latini.
Molte continuarono ad officiare col vecchio rito e con i loro
Protopapi, anche perchè - e la cosa parve opportuna
- gran parte del
popolo si esprimeva e conosceva la sola lingua greca. Anzi
i
risentimenti furono tanti e tali, proprio a causa della lingua,
che fu
creata una collegiata greca nel 1625. E l’Arcivescovo
d’Afflitto, tra
la fine del XVI sec. e l’inizio del XVII, affermava
ancora che nelle
sue visite pastorali aveva trovato sacerdoti, diaconi e libri
corali
greci a Motta S.G., Pentidattilo, Montebello, S.Lorenzo, S.Agata.
I
grecanici comunque cominciano a fare uso della lingua volgare
e a
scrivere in caratteri latini, perdendo, lentamente ma inesorabilmente,
la loro distinzione etnica. Grave danno fu aver provocato
tutto questo,
dal momento che lo stesso Vaticano II aveva dichiarato che
“... che
conoscere, venerare, conservare e sostenere il ricchissimo
patrimonio
liturgico e spirituale degli orientali è di somma importanza
per
custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana
e per
condurre a termine la riconciliazione dei cristiani d’Oriente
e
d’Occidente”. Ma evidentemente a nulla era servita
l’opera di S. Nilo e
dei monaci e, più che il “ricchissimo patrimonio
liturgico e spirituale
degli orientali”, stava cominciando a far gola il patrimonio
economico
degli stessi! Oggi, a distanza di quattro secoli e mezzo,
il rito greco
sta ritornando in questi luoghi. Bova, Bivongi, Gerace, Gallicianò,
ecc. vedono già la presenza dei papades greci e dei
monaci di Monte
Athos.
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