Reggio, Tiberio Bentivoglio racconta la sua resistenza

Bentivoglio

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La mia storia inizia un sabato del 18 luglio del 1992. Prima della morte di Paolo Borsellino. Sono per la prima volta in Caserma a parlare con un maresciallo e a dire no”. Esordisce in questo modo Tiberio Bentivoglio. Un nome ben conosciuto a Reggio Calabria. Lui, che ha scelto di denunciare le richieste estorsive delle cosche e di costituirsi parte civile nei processi scaturiti dalle sue denunce. Lui, destinatario di intimidazioni fatte di attentati, furti, danneggiamenti. Lui, vittima anche di un tentato omicidio. Lui, testimone di giustizia, racconta ai ragazzi di “Impronte ed Ombre. Vite, storie e immagini di vittime della ‘ndrangheta” la propria esperienza di lotta al racket.

È la sesta visita – studio che si inserisce in quel percorso di diffusione della cultura della legalità, cuore del progetto, che mira alla promozione del contrasto alle mafie e a una profonda presa di coscienza dell’incidenza del fenomeno della criminalità organizzata sul territorio. Un percorso che proseguirà fino alla fine del 2016, diffondendo nella provincia di Reggio Calabria prodotti audiovisivi e teatrali e creando opportunità di sviluppare un’analisi delle buone pratiche e delle criticità che persistono nella zona.

Avevo voglia di parlare e di dire di chi sospettavo” continua l’imprenditore reggino davanti alla telecamera che registra la sua testimonianza. I ragazzi, che hanno deciso di intraprendere questo percorso grazie all’idea nata dell’associazione culturale Antigone – Osservatorio sulla ndrangheta e dai partner, sono in silenzio ad ascoltare le parole del testimone di giustizia che li ha ospitati all’interno del suo locale ubicato lungo Corso Vittorio Emanuele. Oggi sorge lì il suo negozio di abbigliamento per bambini. In quell’immobile confiscato alla ‘ndrangheta e situato nel cuore della città. Una realtà targata “no pizzo”. Fuori, il presidio di due militari dell’esercito.

È qui che, come un fiume in piena, Tiberio Bentivoglio rivela i dettagli di una storia iniziata più di vent’anni fa. Tutto è iniziato nel 1992 quando decise di ampliare i locali del suo negozio, la Sanitaria Sant’Elia. Da lì “24 anni di calvario e tanta rabbia dentro”, si sfoga l’imprenditore. “Non è stato facile cacciare il mafioso che è venuto a trovarci” afferma Bentivoglio. Nel 1992 la ‘ndrangheta gli bussò alla porta per la prima volta: “Ci stavamo spostando dal piccolo negozio in una grande struttura”. Sono passati molti anni ma svela di vedere ogni giorno chi gli ha chiesto il pizzo: “Non è facile mandarla giù”. La persona in questione “non era colui che comandava il quartiere, era un mandante”. L’imprenditore ricorda benissimo le parole del suo estorsore: “Ti costerà caro. Stai peggiorando la tua situazione”.
La punizione per Bentivoglio, che si rifiutò di riconoscere il potere di una ‘ndrangheta che manifesta la sua forza attraverso il controllo asfissiante del territorio, è stato un furto. Da lì un calvario. Un’escalation di eventi criminali: minacce telefoniche, incendi e bombe.

Una distruzione, non soltanto delle cose, ma del sistema nervoso” la definisce Bentivoglio che svela di aver ricevuto anche dei “regali”. Un panettone dentro una busta appesa sullo specchietto retrovisore macchina. Con una scritta: “Auguri sbirro”. Quel 25 dicembre non riesce proprio a dimenticarlo. “Sono andato in Questura. Inizialmente ho nascosto questo episodio”. L’imprenditore reggino ammette di aver inizialmente celato molti dei particolari inquietanti anche ai propri familiari. Successivamente si è costituito parte civile in alcuni processi contro la ‘ndrangheta: “Dopo 3 giorni da questa decisione ho trovato una busta gialla con proiettili. Anche questo l’ho nascosto. Poi un gatto morto”. E anche dei messaggi: “Noi te lo abbiamo detto. Ti abbiamo avvisato”. Così – continua – “nel 2008 sono divenuto obiettivo sensibile. Controllato dalle forze dell’ordine 6 volte al giorno. La tutela non la volevo. È un trauma per persone come noi. Vedo più i carabinieri che mia moglie. Ma meno male che ci sono, perché così la famiglia è più tranquilla. Mia moglie ogni volta che sente una sirena mi chiama”.

9 febbraio 2011: il tentato omicidio. Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si è fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portava su una spalla. “È un grande mistero – racconta il testimone di giustizia- non sono convinto che sia stata la ‘ndrangheta, ma amici di qualche persona che non dovevo nominare perché io ho denunciato anche la gente che si è messa di traverso, che ha fatto falsa testimonianza. Ho denunciato anche un pezzo di politica nel 2004”. In molti gli hanno voltato le spalle. Hanno smesso di comprare nel suo negozio. Gli hanno tolto perfino il saluto. Perché denunciare qui è considerato un sacrilegio. “Non mando giù – si sfoga – quando si denuncia e si rimane solo. L’omertà della gente, il fatto che evitavano addirittura di entrare nel negozio ci ha fatto male. È quello il vero deserto intorno. Siamo bravi a fare sit-in e cortei, ma manca il dopo. Bisogna avere il coraggio di agire di conseguenza, prendendo il numero di targa del motorino da cui è sceso il tizio che abbiamo visto mentre bruciava una macchina, un negozio. Questa è l’antimafia. Non basta solo essere persone pulite, non basta non aver commesso reati. Non ci si deve girare dall’altro lato. Qui tutti sappiamo chi sono gli ‘ndranghetisti. Certamente sono stati fatti passi avanti rispetto a 20 anni fa, si è assistito a un cambiamento. Prima non si poteva nemmeno pronunciare la parola ‘ndrangheta. Ma non è sufficiente”. Bentivoglio fa un appello ai commercianti: “Imploro i miei colleghi di non pagare il pizzo. Alimentare quelle casse è un reato per me”.

I partecipanti del progetto “Impronte e Ombre” non lo lasciano andar via. Lo “tempestano” di domande: “Dove ha trovato la forza di denunciare?” gli chiede una ragazza. Tiberio dice che ha resistito allo strapotere delle cosche per rabbia. È stata questa la molla che gli ha permesso di raccontare tutto alle forze dell’ordine. Perché quello che ha costruito l’ha realizzato con le proprie forze e con i sacrifici di chi ha lavorato una vita per raggiungere a poco a poco piccoli traguardi. “Il nostro no è stato un no di rabbia” svela l’imprenditore. “Io provengo dalla gavetta. Poi è venuto qualcuno che voleva prendersi tutto. Provenendo dalla gavetta, quando stai per raggiungere il tuo sogno ti viene più facile dire no. Non esiste. Mio padre andava ogni giorno a lavorare in bici facendo 43 km tra andata e ritorno“.
È in tutti i sacrifici fatti che Bentivoglio ha trovato la forza di dire no ai suo estorsori. Perché il pizzo si paga con i soldi, ma anche con la merce. “Dopo la guerra di ‘ndrangheta – sostiene – fecero una cosa peggiore di uccidere, si divisero il territorio stabilendo una percentuale di pizzo anche tra di loro”. In questo clima si inquadra questo episodio, uno dei tanti con cui la ndrangheta vuole dimostrare il proprio potere sul territorio: “Un giorno entrò in negozio una signora incinta che aveva bisogno del corredino. ‘Poi passa mio marito a pagare e a ritirare’ mi disse. Mi fa il nome di una persona latitante. E il mio rifiuto è costato caro”.

Bentivoglio esorta i ragazzi intenti ad ascoltarlo a fare qualcosa: “Dobbiamo avere la forza di dire cosa non va alle forze dell’ordine. La denuncia è l’unica alternativa. Siete voi il terreno fertile su cui noi dobbiamo seminare per sperare di sconfiggere una ‘ndrangheta che – afferma – è ancora più compatta di Cosa Nostra. È basata sulle relazioni familiari. Gli ‘ndranghetisti si sposano tra di loro”.

C’è chi ha deciso di andarsene dalla Calabria, c’è chi invece ha deciso di rimanere. “Non ha senso denunciare e scappare” ammonisce Bentivoglio. “Bisogna restare e indicare i mafiosi nelle udienze. Loro hanno paura se diventiamo padroni del territorio. Nelle intercettazioni dei giorni seguenti alla grande manifestazione ‘No ndrangheta’ del settembre 2010 (40.000 presenze) si sente quanto i mafiosi abbiano più paura del popolo che si ribella che dei magistrati”. “Qualche giorno fa ho fatto un sogno, c’erano migliaia di giovani seduti davanti a Montecitorio, Palazzo Chigi, Palazzo Madama. Mi guardavano e dicevano ‘non ci alzeremo finché le cose non cambieranno’. Finora non c’è stata una reale volontà politica di sconfiggere la mafia. Il futuro è nelle vostre mani, ragazzi. Vi auguro di avere il coraggio e la responsabilità per essere cittadini onesti e liberi”.

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