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di Carmelo Bagnato
Quando ancora non era conclamata l’entità civile, religiosa e politica, il borgo di San Lorenzo si immedesimava con la più nota Valle Tuccio, di cui costituiva comunque il nucleo direzionale, anche perché collocato, allora elemento molto importante, ad un’altitudine di 787 metri, tra le valli delle fiumara Tuccio e dell’Ammendolea, col controllo di ogni zona circostante e persino la costa marina fino ad un esteso orizzonte del mare Ionio. Così inaccessibile, perciò, da indurre il Missori, quando soggiornò con i Mille, all’espressione”: Questa è la fortezza di Marghera; qui a pietre ci difenderemo per un mese”.
Il nome di San Lorenzo, nel territorio grecanico, lo troviamo, -ma la storia è in continua revisione- per la prima volta, nel 1144, in un atto di conferma, da parte del re Ruggero II, dei confini concernenti i possedimenti offerti al monastero messinese del SS. Salvatore, nella zona della Valle del Tuccio, con 118 uomini, concessa da suo padre. Questi particolari ci sono forniti, ed è il caso di citarli per l’autorevolezza della fonte, dalla studiosa tedesca Vera von Falkenhusen e riportati da D. Minuto in “foglie Levi” pag. 355. Nel 1372 San Lorenzo ricompare elencato tra i castelli di un diploma della regina Giovanna I; assente comunque nel registro angioino di “castrorum calabriae” del 1276, per cui si può presumere che la costruzione del citato castello, di cui ora rimane solo il rione, sia avvenuta tra queste due date. Agli inizi del XV secolo, questa parte alta della Vallata del Tuccio, sembra avere acquisito maggiore e più dinamica vitalità, tant’è che l’arcivescovo D’Afflitto attestava che il paese era sede di dignità protopapale senza peraltro specificare a quando risaliva l’istituzione stessa. Com’è noto, l’antica protopapale s’identifica con l’odierna arcipretale di rito latino, in quanto parrocchia con posizione preminente , probabilmente più estesa e con maggior numero di anime da assistere, su altra denominata dittereale nella medesima località. Conseguentemente, l’intitolazione non poteva che cadere sul nome di un Santo molto importante, uno dei martiri più celebri e venerati nella chiesa cattolica. In ordine di precedenza, fin dalla fine del IV secolo, la festa di San Lorenzo, considerato il duce della vittoria di Roma sul paganesimo, seguiva quella di San Pietro e Paolo. Tra i monumenti di quest’epoca, San Lorenzo è collocato tra i due apostoli. Seguiva questi apostoli anche nell’ordine stazionale. Come il culto, così l’iconografia è diffusa oltre i confini D’italia. Non si contano le parrocchie e chiese a Lui dedicate.
Quest’ assetto funzionale e territoriale religioso a San Lorenzo durò, purtroppo, sino agli anni sessanta dello scorso secolo, riducendosi a diventare parrocchia con curato part-time.
Alle pendici del paese si ricorda “Santa Maria de Pergolis”, sita tra il bivio Croce e il rione Borgo (Zacalaria?), nei pressi della salita denominata Màrea, e dentro le mura, il monastero femminile di Santa Caterina, dove confluirono, per motivi di sicurezza, sia le suore di Santa Caterina de Gurda, contrada nei pressi di San Pantaleone, che quelle provenienti da San Fantino e Balsamio, sostituite da monaci.
Nei pressi di Bagaladi, lungo la fiumara Tuccio, sorgeva il monastero di Sant’Angelo, fondato da
SAN GERASIMO, monaco basiliano, nativo di san Lorenzo, rione Borgo, di cui si conosce anche il sito preciso ove venne alla luce, presso la via che porta il suo nome.
Di questo nostro santo, morto nel 1180, ne abbiamo scritto anche in articoli precedenti. Il suo culto per molto tempo era andato perduto, probabilmente per l’avvento del rito latino che sostituì quello greco cui il Santo apparteneva. E’ ripreso con vigore per opera dell’arciprete Carbone, verso l’ultimo ventennio dello scorso secolo. E’ divenuto Santo per la vita caratterizzata da perenne mortificazione; visse in solitudine umiltà e purezza che tuttavia richiamò molti seguaci da indurlo a fondare, il citato monastero di Sant’Angelo, il più importante del territorio, probabilmente mentre ricopriva la carica di abate del monastero San Giorgio, rinomato per la biblioteca e gli studi che ivi si sviluppavano, la cui sede sembra sia stata nei pressi della località Lacco.
SAN GAETANO CATANOSO nasce nella frazione di Chorio nel 1879 e muore nel 1963. E’ canonizzato nel 2005. E’ stato parroco a Pentidattilo e a Santa Maria della Candelora a Reggio. Presto il popolo ravvisò in lui il carisma della paternità e spontaneamente cominciò a chiamarlo “padre”: appellativo che lo accompagnò per tutta la vita perché meglio di ogni altro qualificava la sua personalità pastorale. La sua anima fu presto incendiata dalla devozione al Volto sofferente di Cristo. Abbracciò perciò la missione di diffondere il culto tra il popolo e di coinvolgere i sacerdoti e i laici nell’apostolato della riparazione dei peccati, particolarmente della bestemmia e della profanazione delle feste religiose. Primeggiano tra i suoi impegni, l’evangelizzazione, la catechesi, le missioni al popolo, il culto dell’Eucarestia, il ministero delle confessioni, l’assistenza ai poveri, ai malati e ai perseguitati da associazioni criminose, l’opera delle vocazioni sacerdotali, l’accoglienza di quanti ricorrevano a Lui. S’è detto e scritto di Lui: “Padre Catanoso non è diventato, ma nasce Santo”; “non c’è da meravigliarsi se padre Catanoso è diventato santo. Chi l’ha conosciuto in vita, già lo considerava tale e lo venerava”. Così, nel 1934, incoraggiato anche dall’amico, anch’egli santo, Luigi Orione, fonda l’ordine delle Suore Veroniche del Volto Santo, col precipuo impegno di recarsi nei luoghi più impervi, ove altri avevano rifiutato, per stare accanto alla gente più derelitta e bisognosa di ogni conforto. Così l’ordine si diffonde ovunque, oltrepassando anche i confini d’Europa.
Da ricordare inoltre l’eroe Ludovico Abenavoli che secondo la tradizione, dopo aver combattuto vittorioso nella famosa disfida di Barletta contro la compagine francese, per la difesa dell’onore e il prestigio degli italiani, rientra a San Lorenzo portando con sé un rampollo di olmo che pianta nella centrale piazza ove ora, dopo oltre cinquecento anni, vegeta maestoso, proclamato legittimo emblema dell’antico e grande paese. Non mancarono altri episodi di lotta per la difesa della libertà e la giustizia sostenuti dai nostri avi, che saranno oggetto di altre occasioni letterarie, oserei dire dissertazioni, riservando questa conclusione all’evento che rientra nella vicenda dell’unità nazionale, quanto mai di opportuna attualità, in occasione del suo 150° genetliaco.
Probabilmente nella stessa piazza, quando ancora l’alberello lottava per ambientarsi, nell’ambito delle persecuzioni religiose, perirono al rogo, nel 1510, ben undici malcapitati, di cui sette cappuccini.
Bruno Rossi, promotore e leader carismatico di questo evento, prima di essere nominato sindaco, era stato in Aspromonte con altre numerose personalità della provincia per localizzare un punto ove sarebbero affluiti i rivoluzionari in attesa di Garibaldi, e a Messina, per collaborare all’organizzazione dello sbarco delle truppe garibaldine in Calabria.
La sua nomina come quella di Amato a Melito, che nel 1847 era stato condannato a morte, e aveva sofferto il carcere per motivi politici, rientrava nel contesto della concessione, da parte del re borbonico Francesco II, della costituzione avvenuta nel precedente mese di Giugno, con l’intento di attutire, mitigare una tesa atmosfera sociale e politica, per il dispotico assolutismo politico praticato, ormai insostenibile ed esposto, come d’altronde avvenuto, alla rivolta. Concessione chiaramente strumentale, alquanto tardiva e opportunistica, che chiaramente non è valsa ad evitargli la perdita del regno.
E’ noto e lo stesso Rossi lo riferisce nelle memorie, che convocato a prestare giuramento dall’intendente Spanò Bolani, anch’egli frutto delle nuove direttive napoletane, dovette accettare la carica malgrado il proposito di rifiutarla, per evidente contrasto con i propri ideali, chiaramente antiborbonici, massone e quindi “fratello” di Garibaldi, ed in procinto di collaborare, con i garibaldini alle porte, alla caduta della tirannica dinastia.
Ed infatti, malgrado la funzione di primo cittadino del comune, continuò nel suo proposito teso al rovesciamento di un regime retrivo e autoritario, reclutando immediatamente, col pretesto della guardia nazionale, un drappello di un centinaio di uomini di San Lorenzo e di Bagaladi, comune limitrofo, compreso il sacerdote compaesano D. Giuseppe Pannuti, conducendoli, attraverso impervie montagne, e fitte boscaglie, non ignote comunque a questa gente, attenti a non entrare in contatto con i soldati borbonici all’inseguimento, fino all’incontro con garibaldini, accampati fra i giganteschi pini, faggi, abeti, e fitto sottobosco. All’arrivo, era in atto la discussione sulla scelta dell’imminente obiettivo, se Bova o San Lorenzo, entrambi i paesi disposti su alture ed a discreta vicinanza col mare, nel caso si verificasse la malaugurata ipotesi di riattraversarlo per il rientro in Sicilia. Per Bova emergono difficoltà varie, espresse anche da Pasquale Nesci, per cui fu accettata la proposta del sindaco Bruno Rossi per San Lorenzo dopo l’assicurazione di questi, che nel solo vasto palazzo, da qualcuno descritto, per l’arredamento, simile ad una regia, erano in deposito oltre 500 tomoli di grano, abbondanza di montoni e bovi e possibilità di alloggio per tutti, mentre la cittadina di San Lorenzo, precisa, per la sua posizione topografica era adatta per una lunga difesa. Così, infatti, nell’avvicinarsi, al primo impatto, la descriverà Alberto Mario, il cronista dei Mille, nel suo famoso libro “La Camicia Rossa”:
“….alla destra ergersi un colle a pan di zucchero sulla cui sommità sembra che esulti il paesetto di San Lorenzo”.
A San Lorenzo sono accolti come liberatori a suon di tamburo e ospitati nelle disponibilità dei gentiluomini del luogo. Il successivo mattino, uno dei due fratelli Cuzzocrea, Domenico parte improvvisamente dal paese per recarsi a Messina e recapitare una lettera a Garibaldi, lettera redatta già prima di giungere a san Lorenzo, di cui ancora si sconosce il contenuto. Dopo di che, lo stesso giorno, 18 Agosto, sfidando la non remota reazione borbonica col pericolo di annientamento del paese, di uomini e cose, Bruno Rossi, alla guida del popolo, in testa al consiglio comunale, accompagnato da un banditore col tamburo, così declama l’evento: “E’ proclamata la decadenza di Francesco Secondo, e la Dittatura di Giuseppe Garibaldi. Da oggi innanzi sarà egli il padrone, non più Francesco Secondo”. Lo stesso sindaco, aggiunge ancora nelle memorie, che nessun verbale e nessuno scritto fu redatto, per cui, i particolari riportati da Alberto Mario nella “Camicia Rossa” sono frutto di fantasia. Accadde pure che essendo giunte notizie di imminente arrivo in paese di truppe borboniche , per timore, addirittura qualcuno trasportò la mobilia in campagna.
Anche a prescindere dal concorso del paese allo sbarco di Garibaldi a Melito, basta quest’ audace evento, questa temerarietà, eroico coraggio e profonda fede in un migliore domani, in un’Italia unita e probabilmente repubblicana con garanzia garibaldina, generoso slancio e ferma determinazione, indomito spirito patriottico pronto anche al sacrificio,con il leader carismatico , Bruno Rossi, sollecitato da Alberto Mario quale portavoce di tutto il reggimento ivi stazionato, a motivare i sentimenti di legittimo orgoglio dei laurentini che per mezzo di Saverio Zuccalà, direttore del periodico “La voce del sud” a cui si sono associati le istituzioni a cominciare dal comune di San Lorenzo, di Bagaladi, Melito nonché l’amministrazione provinciale, hanno avansato istanza al Presidente della Repubblica perchè il comune di San Lorenzo venga insignito della medaglia al valore militare.
Nel mio primo lavoro letterario edito, “San Lorenzo , note e memorie storiche “ alle pagine 92-3-4 del 2003, mi ero ampiamente soffermato su questo rilevante evento in paese, attenendomi soprattutto alle memorie di Bruno Rossi, augurandomi e che giungesse l’opportunità di valorizzarlo nella misura che l’evento stesso abbia significato per San Lorenzo e l’unità d’italia. Gli ultimi accadimenti mi hanno dato ampiamente ragione, e ne sono felice.
Come pronosticato e auspicato, il giorno successivo, il 19, ecco la notizia dell’arrivo di Garibaldi a Melito, che della presenza a San Lorenzo del gruppo scampato nel tentativo di occupare il forte di Altafiumara, cospicuamente ingrossato da volontari del territorio, era stato avvertito con missiva affidata Domenico Scopelliti, sicuramente determinante alla scelta del luogo di sbarco. Qualche altra fonte riferisce che latori della lettera partita da San Lorenzo, erano entrambe i fratelli Cuzzocrea.
Nella ripresa del discorso per il 150 mi ero ripromesso di trattare sulla scelta del luogo di sbarco di Garibaldi in Calabria, e mi ero soffermato a riflettere sull’”anello” mancante al mio discorso, costituito dalla conoscenza da parte dell’eroe della presenza a San Lorenzo del primo contingente sbarcato sulla costa calabra e sfuggito all’inseguimento delle truppe borboniche. Cioè, se la missiva affidata al Cuzzocrea fosse giunta nelle sue mani.
Ma per fortuna, non dovetti attendere tanto, perché il compaesano Saverio Zuccalà è riuscito a colmare questa lacuna con la sua recente e preziosa pubblicazione, dallo stesso modestamente definita “Componimento”, dal titolo “ San Lorenzo sull’Aspromonte e l’unità d’Italia” in cui chiarisce il perché lo sbarco è avvenuto a Rumbolo e non in altro luogo, dando così la possibilità del congiungimento delle truppe provenienti da San Lorenzo con quelle sbarcate a Melito, avviandosi insieme alla conquista di Reggio, ove Giuseppe Garibaldi entrerà vittorioso montando il cavallo, dell’eroe di San Lorenzo, Bruno Rossi. Questo cavallo è immortalato dal pittore Benassai con un dipinto donato al palazzo del municipio di San Lorenzo.
E ‘nt’ ‘e muntagn…chi vardanu ‘u mari Sona lu tamburu e ‘a vuci grida forti:
D’undi vinniru i patri a li marini, “Genti, vi faci ‘u sinducu sapiri,
già ccummenzunu i figghj ad arrivari: chi oggi pi lu Barbuni è gh jornu i morti;
cammisci rrussi di garibaldini. Cadutu esti ‘u so rregnu i milli mali,
E ‘ ‘nt’ ‘e muntagni si senti gridari, Populu i San Lorenzo, tu à ubbidiri
a ‘mmenz ‘castagnari e li zappini, a Vittoriu e a lu randi Ginirali”.
n’ ‘a vuci chi li larmi fa sciucari: ( Dai “Sonetti Garibaldini” di Giovanni De Nava, sul peirodico
“O gènti, su spizzati li catini!” “Fata Morgana” del 23 Agosto 1920
Alla luce perciò di quanto storicamente definito, è necessari e doveroso che tutti uniti, istituzioni e cittadini, poniamo le nostre forze per lo scopo preposto, augurandoci che possa anche costituire un supporto affinchè il nostro amato paese non perisca, avendo finalmente riconosciuti i meriti acquisiti con esiti che oltrepassano i suoi confini, per il valore dei suoi indimenticabili “Santi ed Eroi”.
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