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La morte di Immacolata Ruimi, ammazzata di botte presumibilmente dal convivente, non è che l’ennesimo episodio che vede le donne divenire oggetto di violenza. Le cronache sono piene di donne aggredite e violentate per strada, picchiate a sangue dai mariti, uccise da ex fidanzati che non si rassegnano a un rifiuto.
Le statistiche, pur non essendo esaustive perché la gran parte delle vittime di violenza non sporge denuncia, aiutano a cogliere l’estensione del fenomeno: quasi 7 milioni di donne in Italia sono state oggetto almeno una volta nella vita di violenza fisica o sessuale e sono le mura domestiche il principale ambito in cui le donne subiscono violenza.
Secondo i dati Istat, il 69,7% delle violenze è inflitto dal partner, per il rapporto Eures-Ansa il 70,7% degli assassini di donne sono avvenuti in famiglia. E se le donne che nascono in contesti agiati più facilmente possono sporgere denuncia, avendo meno difficoltà a procurarsi un avvocato e a ricostruirsi una vita dopo la separazione da un marito violento, diversa invece è la situazione delle lavoratrici, e ancora di più delle donne disoccupate, che spesso non possono neanche pensare di separarsi da compagni violenti semplicemente perché non è per loro economicamente possibile, soprattutto se hanno figli a carico.
Per queste donne, la violenza fisica rappresenta l’espressione più aberrante e vergognosa dell’insostenibilità della condizione a cui il sistema le condanna. Anche quando non è teatro di violenza, infatti la famiglia è comunque per loro un ambito di oppressione e sfruttamento, perché dopo decenni di distruzione dello stato sociale è sulle donne che ricade in toto il peso del lavoro domestico privato con compiti sociali quali la cura dei figli e degli anziani. Lavoro fra le mura domestiche che si aggiunge a quello che sono chiamate a svolgere come manovalanza di riserva iper-ricattabile e sottopagata da inserire all’occorrenza nel processo produttivo.
Questa oppressione diventa ancora più acuta in fasi di crisi economica, in cui il lavoro di cura viene appesantito dalla devastazione dei servizi e dell’assistenza, il mantenimento del posto di lavoro è costantemente sotto minaccia e l’esistenza si converte in una continua lotta contro il degrado sociale e morale. Tutte pressioni che si accumulano sulle spalle delle famiglie dei lavoratori, ed in particolare sulle donne, spesso producendo anche un inaridimento delle relazioni umane.
La famiglia diventa così una facile valvola di sfogo della violenza provocata dai mezzi stessi a cui il sistema ricorre per uscire dalle crisi: orari di lavoro ai limiti della resistenza, salari da fame, licenziamenti, precarietà, attacchi ostinati alla dignità dei lavoratori e ai loro diritti sindacali, depauperamento dei servizi e dei diritti. È in queste condizioni che si annidano i focolai di violenza e degrado all’origine di questa mattanza.
Se anche l’Economist non ha avuto remore a definire “pre-bismarckiane” le condizioni di lavoro degradanti e disumane a cui personaggi come Marchionne o la famiglia Riva vorrebbero tornare, la violenza sulle donne rappresenta nelle relazioni umane l’espressione più bieca della barbarie sociale a cui il sistema ci ha condotto.
Sono queste le motivazioni per cui la morte di Immacolata Ruimi per il partito della Rifondazione Comunista non è semplicemente un aberrante episodio di violenza, ma il simbolo di un delitto collettivo. Se una è la mano che l’ha uccisa, cento e mille altri sono complici di questo delitto. Ne è responsabile anche chi quotidianamente si fa alfiere di quelle politiche che distruggono servizi e stato sociale, chi non esita a buttare in strada centinaia di famiglie per garantirsi il proprio margine di profitto, chi da alfiere delle privatizzazioni e del Vaticano ha progressivamente depauperato e spogliato quel già magro tessuto di servizi che permetteva a lavoratrici scelte autonome e indipendenti nella gestione della propria vita e delle proprie relazioni, e non scaricava solo ed esclusivamente all’interno delle famiglie la gestione di un eventuale disagio. Ma i consultori sono stati depotenziati dall’invasione di obiettori e spogliati progressivamente di tutti i finanziamenti, i progetti di educazione sessuale nelle scuole abbandonati, i centri antiviolenza e di assistenza psicologica e legale abbandonati alla buona volontà di associazioni o comitati, mentre la donna rimane l’anello più debole e più ricattabile sul mercato del lavoro, sottoposta ad ogni tipo di ricatto.
Denunciare oggi la morte di Immacolata Ruimi significa denunciare le condizioni in cui migliaia di donne sono costrette a vivere a Reggio, in Calabria e in tutto il Paese. Ed è per questo che non possiamo tollerare attestati di solidarietà e dichiarazioni indignate da parte di chi quotidianamente contribuisce a un sistema che vuole le donne schiave. “La donna libera dall’uomo, entrambi liberi dal capitale”, Camilla Ravera.
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