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di Alessandro Petronio
Ci sono eventi della vita che possono essere visti da differenti prospettive. Ci sono però prospettive e significati che si prestano a essere celati dietro immagini ed emozioni più vivide e immediate.
Il 20 dicembre presso il Teatro Siracusa è stata messa in scena la rappresentazione “Le Stelle Siamo Noi”, frutto del lavoro degli utenti e degli operatori dei servizi della Piccola Opera Papa Giovanni, associazione che si occupa di disabilità fin dal 1968, anno in cui viene fondata da Don Italo Calabrò. Si sa che mettere in scena una rappresentazione non è una cosa facile.
Costruire i fondali, allestire i costumi, imparare le parti, provare le musiche, provare e riprovare, e riprovare e riprovare; e tanto ancora di più. Quando poi attori, scenografi, coreografi, musicisti, sceneggiatori, sono operatori e utenti di servizi per persone con disabilità le cose possono solo essere più complesse, per alcuni possono rappresentare una sfida da non tentare neppure. Però, il 20 dicembre, presso è stata comunque messa in scena la rappresentazione “Le Stelle Siamo Noi”.
C’erano tanti familiari degli utenti, c’erano operatori dei servizi della Piccola Opera, c’erano cittadini interessati, operatori e funzionari del Settore Politiche Sociali del Comune. C’erano cerchi concentrici di comunità, tutti stretti attorno a quel palcoscenico, rivolti verso quel sipario. E al centro di questi cerchi è avvenuto: è andata in scena la vita. Chi c’era può raccontarlo con le sue parole, che qui proviamo a testimoniare in breve: emozioni, commozione, lacrime, brividi, risate, senso di pienezza, orgoglio, stupore e incredulità, divertimento, senso di sospensione del tempo.
La rappresentazione non è stata una messa in scena, è stata la vita, nella sua espressione più libera e autentica, la vita che si è affacciata da quel sipario e ha attraversato e abitato quel palcoscenico. Sulla base di testi classici, come Pinocchio e Il Piccolo Principe, su un raffinato tessuto scenografico realizzato presso i laboratori di falegnameria di uno dei servizi della Piccola Opera, giovani ed operatori hanno raccontato storie emozionanti di vita reale e simboli universali di pace, giustizia, amore fra gli uomini, hanno raccontato un altro Natale, non meno credibile e suggestivo del cliché adorno di renne, slitte, neve, barbe bianche e vestiti rossi col cappuccio.
In particolare, utenti ed operatori delle Comunità “Casa Gullì” di Reggio, “Villa Falco” e “Nadia Vadalà” di Melito, dei Laboratori Socio Occupazionali di Catona, hanno costruito un mondo sognante e colorato nel quale ciascuno dei numerosi spettatori ha potuto ascoltare una parola o vedere un’immagine natalizia, senza che il Natale fosse esplicitamente citato, un mondo sognante nel quale il dono e il messaggio di speranza e pace vengono direttamente dalla messa in scena, dalle movenze delicate di un fiore, dalla voce saggia di un gufo, dalla canzone profonda di un Pinocchio in frac, dalla densa performance di improbabili percussioni, dal volto familiare e scavato di un Mastro Geppetto, insomma, da tutto ciò che persone con disabilità intellettive e motorie mettono in scena di se stessi, delle proprie emozioni e del proprio impegno.
Ora, quello che diremo non è semplice da spiegare. E’ una di quelle prospettive che si possono celare dietro immagini ed emozioni vivide; non è neppure semplice da scrivere, ma ci proviamo: la realtà è una cosa differente dalla vita. Nella cosiddetta realtà esistono i centri di riabilitazione, quelli socio-educativi, esistono gli operatori, gli utenti, esistono i funzionari, le rette, i bilanci, la mensa, la pulizia dei locali, il servizio di trasporto, le convenzioni, i contratti, eccetera, eccetera. Nella vita esistono le persone.
Per la vita le persone sono tutte identiche; per la realtà sono tutte differenti e predefinite da titoli, etichette, funzioni, ruoli, stigmi, stereotipi, giudizi a priori. Nella cosiddetta realtà, non è contemplato che Consolata, che è un nome in codice, possa vedere davanti a sé un tale spazio di movimento, sia interiore, sia corporeo, così ampio e indiscusso da renderla in grado di spiegare le ali della propria persona ed essere pienamente se stessa mentre gioca il ruolo di un fiore sbocciato.
In quel momento di libertà piena e indiscussa la vita si affaccia alla coscienza del mondo sensibile e travalica la realtà, si impadronisce degli strumenti scenici, ad esempio, e li utilizza per mostrarsi, senza enfasi, agli occhi di chi vuole guardare, di chi vuole aprire un varco nel tessuto del senso comune e guardare al di là della realtà. In quel varco si possono distinguere chiaramente i volti definitivamente autentici di Massimo, Consuelo, Peppe, Guido, Roberta, che sono sempre nomi in codice, i volti definitivamente autentici di tutti e di ciascuno.
Ma tutto ciò è possibile perché qualcuno di loro, forse tutti loro, hanno affilato, giorno dopo giorno, perfette cesoie emozionali, cognitive, corporee, per rendere possibile quello squarcio nel senso comune, per rendere agevole l’attraversamento di quel varco, per rendere finalmente e pienamente agibile quello spazio di attività e di partecipazione che è il vero traguardo del lavoro con le persone in condizioni di disabilità (come afferma l’Organizzazione Mondiale della Salute e come raccomanda la Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone con disabilità). Allora può accadere che un genitore dica “non avrei mai creduto che mio figlio Agenore (che è un nome fasullo) fosse in grado di esibire questa performance”.
Nella realtà intessuta di luoghi comuni certe cose non sono possibili, nella vita sono possibili, anzi sono vere. Però poi il varco si richiude e ritorna la realtà. O la messinscena, non è poi così chiaro da quale lato sia la parte recitata e da quale la persona vera.
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