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di Giuseppe Bombino
Non v’è dubbio che il processo di metropolizzazione significhi progressiva riduzione del differenziamento delle popolazioni su cui esso agisce. Ridurre il differenziamento significa anche individuazione crescente, contrapposizione delle singolari personalità che caratterizzano le diverse comunità, per conseguire una stessa autonomia di sviluppo, un coestensivo spirito territoriale, autarchia culturale, economica ed istituzionale.
Se ciò non avvenisse, se, cioè, prevalessero i sentimenti di indipendenza tra le comunità sopra un così denso territorio (quale sarebbe quello della città metropolitana dello Stretto), ed esse, coi loro antagonismi irriducibili e con le loro condizioni incontentabili, muovessero in direzioni opposte, questo processo si arresterebbe, facendo perdere terreno nella concorrenza politica nazionale ed internazionale, che avrebbe più facile ragione di una politica territoriale disunita, con la conseguente rovina anche delle singole parti.
Vorrei orientare subito i miei sensi verso il nuovo spazio di questa prodigiosa città metropolitana, che è la nostra nuova patria. E patria è sintesi di infinite componenti preterinviduali e transubiettive, nel cui seno la coscienza del singolo si effonde e si esalta in quell’atto per cui la propria vita individuale diviene l’altrui. Ma appunto perché tutte le comunità partecipano della medesima etica, per la superiore storia della propria città, i problemi della metropolizzazione divengono a un tempo terribili e magnifici.
Ma resta in un angolo ancora buio questa grandiosa idea, mortificata dai ragionamenti contrari, eppure tenace nella propria fede da cui nacque. Aspettiamo, dunque, che la parte migliore dell’umanità reggina si spinga fino alla visione finale, che è quella linea del precipizio da cui il saggio vide il popolo lottare per il confine d’un orto, mentre il mondo già dilatava il pensiero dell’uomo oltre gli abissi delle nazioni.
Forse vale la pena di meditare anche tra noi una parabola, col proposito di trovare la direzione della nostra storia essenziale, immanente e futura, in un rinnovato pensiero rinascimentale. E’ la parabola del principio ordinatore.
Lo Stretto non è che una pianura liquida, e mobile, fisica e astratta come un dogma. E’ il centro di una spiritualità unificatrice, di una ragione collettiva, d’una unità, d’una autorità. E questo Stretto, separatore in apparenza, ostacolo in mezzo all’Europa e al Mediterraneo, è in vero un legame ed un centro immutabile che unisce i climi più differenti, i popoli opposti e le religioni distanti, paesi e rocce, mari e foci diversi. Comprenderete questa similitudine. L’ufficio civilizzatore è quindi di custodirne intatti i valori essenziali, la concezione d’un’idea ordinatrice, d’una rivelazione. Custodirne intatto il principio dell’unità.
Ecco perché è necessaria una politica che salvi questa intelligenza territoriale, questo centro fisso. E’ necessario, io penso, contrastare l’anarchia, ogni ideologia, cioè, che porti lontano da questo centro unificatore, da questo ordine.
Se mancasse lo Stretto nei nostri ragionamenti, ogni fenomeno della società perderebbe il proprio sentimento gravitazionale, con un ritorno lento all’inquietudine.
Vorrei seminare la fiducia d’un movimento unitario dello Stretto, d’un partito ordinato di idee e di visioni elette. Insomma d’una religione dello Stretto che è la religione della patria nuova e antica, l’unica concezione territoriale in cui poter leggere gli attestati e i documenti che i millenni impastarono con la cultura, la fede e la biologia delle più diverse razze.
Si attuerebbe il primo e più alto esempio di mistica umanitaria e collettiva: il molteplice entra di nuovo nell’unico senza perdere i propri caratteri individuali. Proprio come vi entrò d’ogni parte nel deserto l’umanità giovane cercando una Croce.
E ciò per mezzo di un principio che mentre ordina crea.
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