Questo post é stato letto 21680 volte!
Se qualcuno pensava che l’ex numero due della DNA, Alberto Cisterna, si sarebbe accontentato dell’archiviazione disposta due mesi fa dal gip di Reggio Calabria, su conforme parere della Procura, aveva fatto male i propri calcoli. Il giovane magistrato ha atteso, pazientemente, il deposito della motivazione dell’archiviazione, ben 500 pagine, per esprimere, in una pubblica conferenza stampa, il suo chiaro e netto dissenso, il suo ‘non ci sto’, la sua voglia di uscire dalla vicenda totalmente pulito. Troppe sono le “insinuazioni, i giudizi e le valutazioni senza riscontro che rendono inaccettabile il provvedimento”.
Inaccettabile perché “il decreto di archiviazione è in sostanza una sentenza emessa in contumacia, un giudizio senza possibilità di appello e senza che vi sia stato alcun contraddittorio”. Ma il suo ‘non ci sto’, a differenza di quanto fece l’illustre inventore della famosa e storica locuzione, è accompagnato dalla richiesta del proprio ‘rinvio a giudizio’. “Che si abbia il coraggio di farmi processare. Sono sicuro che portando innanzi a loro le scorie velenose, tumulate in questo processo, sarà possibile giungere a chiarire ogni cosa”.
Ad ogni buon conto il valente magistrato, incredibilmente sottratto all’impegno antimafia e ‘isolato’ in quel di Tivoli, ha voluto soffermarsi su alcuni fatti specifici che hanno determinato la decisione del CSM di trasferirlo per ‘incompatibilità ambientale’, decisione assunta su atti errati come, ad esempio, la lettera pervenutagli da un mafioso e che lo stesso consegnò personalmente all’allora Procuratore Giuseppe Pignatone. Il CSM non la prese neanche in considerazione perché credette che la consegna era avvenuta il 7 giugno 2011 (quando i contatti con il Lo Giudice erano ormai noti) e non il 2010 come realmente avvenne. Un cambio di data che aveva reso debole la difesa.
Ma se è vero ciò a che serve il perbenismo di Cisterna che non crede al complotto ed assolve Pignatone? Serve forse a dire che lui non cerca vendetta, non vuole inseguire, con la logica del dente per dente, chi lo ha messo in croce, ma cerca, solo e soltanto, d’uscire dalla vicenda per quello che è stato e che continua ad essere: un fedele servitore dello stato, attento a non contribuire ad allargare il fossato tra giustizia ed opinione pubblica. Lodevole atteggiamento ma insufficiente alla bisogna. I veleni del tribunale di Reggio Calabria sono un fatto storico se è vero come è vero, che il vecchio sindaco socialista, Michele Musolino, diceva alto e forte che il marcio non era in Danimarca ma chiaramente nel palazzo di giustizia di Reggio Calabria.
Sono veleni che hanno ammorbato gli anni successivi determinando le visite ispettive del Ministero per tentare di far superare le contrapposizioni tra le opposte fazioni. Proverbiale un passo della relazione degli Ispettori che dipingevano la situazione reggina come emblema della logica meridionale che non permette il ricambio generazionale senza morti e feriti. “Non si guarda, diceva la relazione, a chi ti ha preceduto come ad esempi da emulare, ma solo come ostacoli da abbattere”. Un mezzo per affermare la propria debole personalità e l’inconsistente carisma, o per costruirsi sbocchi carrieristici, altrimenti, impensabili.
Il famoso ‘atto dovuto’ contro Cisterna, che cozzava con i convincimenti di un magistrato di razza come fu Giovanni Falcone che viene continuamente sbandierato come ispiratore della propria azione di giustizia, non convinse nessuno (per la genericità e l’inconsistenza accusatoria), e come scrivemmo due mesi fa, “sembrò subito, anche ai non addetti ai lavori, una gratuita accusa con il preciso obiettivo di far fuori il valente Magistrato”.
Gli hanno rotto le ali, è vero, ma, da come ha reagito, indipendentemente dall’accettazione della sua richiesta d’essere giudicato o meno, si afferma, malgrado la giovane età, come gigante rispetto a quanti, per piccineria o possibile tornaconto, hanno agevolato acchè l’atto dovuto divenisse un atto di condanna.
Giovanni ALVARO
Questo post é stato letto 21680 volte!