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Avevamo scritto in una riflessione, di alcuni mesi fa, che l’atto dovuto, portato a giustificazione da Pignatone (oggi procuratore a Roma) per l’iscrizione del giovane magistrato Alberto Cisterna nel registro degli indagati, non era condivisibile anche alla luce dell’insegnamento di Giovanni Falcone, a cui lo stesso Pignatone si richiamava, che prima di procedere all’iscrizione di un possibile reo, indicato come tale da un ‘pentito’, sottoponeva quelle dichiarazioni ad una serie di riscontri. Fu così che il ‘dichiarante’ Pellegriti fu iscritto nel registro degli indagati per calunnia.
Siccome nella vita ogni discesa prima o poi diventa una salita, ora lo stesso ‘dichiarante’ Nino Lo Giudice, ‘utilizzato’ per inscrivere Cisterna nel registro degli indagati, accusa di nefandezze lo stesso Pignatone. Che bisognerebbe, quindi, fare adesso? Seguendo il ragionamento che portò all’atto dovuto contro Cisterna, vice di Grasso, bisognerebbe fare altrettanto, iscrivendo nel registro degli indagati Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Beatrice Ronchi e l’ex Capo della Mobile di Reggio ed ora a Roma, Renato Cortese.
Il ‘nano’ Nino Lo Giudice, promosso dalla procura di Reggio a boss di prima grandezza, in un suo memoriale, ha parlato andando giù in modo molto pesante, di ‘cricca’ che, con lo spauracchio del 41 bis, lo manipolava e lo portava a dichiarare cose che nemmeno sapeva. “Da me hanno preteso sempre di più senza lasciarmi spazio neanche per respirare’’. Stando a quanto scrive, Lo Giudice sarebbe stato costretto non solo a dire cose inventate, ma anche ad accettare “ogni tipo di supplizio per conquistarmi la patente di collaboratore’’.
Se quanto dichiarato contro Cisterna (poi rivelatosi falso) ha provocato la sua iscrizione nel registro degli indagati, e ha ottenuto ampio spazio sulla più importante corazzata mediatica italiana, le accuse mosse alla Procura, alla Dda ed alla Squadra Mobile di Reggio Calabria, di gran lunga superiori per gravità, se non altro per aver agito in concorso tra loro, dovrebbero non solo determinare l’iscrizione della ‘cricca’ nel registro indagati, ma provocare conseguenze ‘carrieristiche’.
Ma non chiediamo tanto perché siamo garantisti sempre (che significa pretendere il rispetto delle regole e la ricerca dei riscontri alle accuse), e prima di gridare ‘al lupo, al lupo’ vorremmo che si facesse reale chiarezza su quanto sta avvenendo nella ‘giustizia reggina’. Troppe cose non vanno, troppi intrecci con altre procure si appalesano, troppi veleni si riscontrano.
Negli anni passati una presenza ispettiva a Reggio registrava nella relazione finale che si viveva nella procura calabrese il clima che è solito spesso riscontrare nei meridionali, che è il rifiuto dell’emulazione tra chi va e chi arriva nelle alte cariche dirigenziali e non solo del mondo giudiziario. Si “guarda a chi sta davanti”, scrissero gli ispettori, “o a chi ci ha preceduto non ad un personaggio da emulare, ma ad un simbolo da abbattere perché, se è stato bravo, oscurerebbe la propria carriera”.
Oggi, se le cose dette dal ‘nano’ sono vere ci troviamo in una situazione fortemente deteriorata perché si userebbe lo strumento giustizia non per demolire l’immagine di un esponente della vecchia classe dirigente, ma per risolvere alla radice, come fa la mafia, chi può ostacolarci, togliendolo letteralmente dalla scena, anche se senza ucciderlo.
Non basta al Governo per mettere sotto la lente d’ingrandimento la vicenda Reggio e quella di altre procure che si sono interessate a Reggio, e che hanno risolto, come si mormora in Calabria, altri spinosi problemi di ‘pulizia etnica’? Di cos’altro c’è bisogno? La Cancellieri così pronta a ‘sospendere la democrazia a Reggio’ con lo scioglimento del Consiglio Comunale, cosa altro aspetta per mandare gli ispettori?
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