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Cresce il business dell’ecomafia, l’unica industria italiana che non avverte la crisi. E si rafforzano sempre più i tristi primati calabresi sul fronte delle illegalità ambientali.
Lo Stivale si conferma sul podio nella classifica generale dei reati accertati, ma anche in quelle che riguardano il ciclo del cemento e il ciclo dei rifiuti. Inoltre, Reggio Calabria e Cosenza figurano tra le prime dieci in tutte le classifiche su base provinciale. In particolare, per quanto riguarda il ciclo dei rifiuti balza agli occhi il caso Vibo Valentia: ha risalito la graduatoria fino a figurare seconda provincia in Italia per numero di infrazioni, con addirittura un incremento del 120% rispetto al 2011.
Dallo scioglimento del Comune di Reggio per contiguità con la ‘ndrangheta alle tante inchieste sulle infiltrazioni negli appalti pubblici passando per il caos discariche e il fallimento eclatante delle società miste di gestione dei servizi ambientali, la Calabria appare sempre più agli occhi degli osservatori come terra di scorribande e grandi affari illeciti. Anche il turismo, e cioè la vera risorsa di una terra splendida, è in mano alle cosche come testimonia l’inchiesta Metropolis della Dda di Reggio.
“Quella delle ecomafie – ha dichiarato il presidente di Legambiente Calabria Francesco Falcone – è l’unica economia che continua a proliferare anche in un contesto di crisi generale. Un’economia che cavalca l’abusivismo, distrugge il territorio, drena le risorse degli appalti pubblici”.
“Occorre uno scatto di reni – ha affermato Nuccio Barillà, della segreteria nazionale di Legambiente – per introdurre finalmente i reati ambientali nel codice penale e occorre un giro di vite sul fronte abusivismo edilizio, per scongiurare nuove costruzioni e spingere per le demolizioni degli ecomostri. I dati della realtà richiedono a tutti i livelli una nuova consapevolezza: le ecomafie uccidono la Bellezza, che è la risorsa più preziosa della Calabria su cui si deve costruire una nuova economia e rubano prospettive di futuro ai giovani, costretti a fuggire in mancanza di alternative fuori dai circuiti criminali. Nessuno può più restare passivo e indifferente”.
Gli ambientalisti non dimenticano di adempiere al dovere della memoria e di rivendicare il diritto alla verità. Nel 1994 Legambiente presentava alla procura di Reggio l’esposto che avrebbe dato il via alla vicenda delle navi dei veleni, che si presume siano state affondate a largo delle coste calabresi, e non solo, cariche di scorie pericolose e radioattive. Una vicenda inquietante a cui si sovrappone la morte del capitano di fregata Natale De Grazia, avvenuta il 13 dicembre 1995. Giustizia e verità non sono ancora arrivate, una richiesta che diviene ancora più forte dopo l’approvazione da parte dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti di due relazioni di grande valore: quella del 5 febbraio 2013 sul caso De Grazia, e quella del 28 febbraio sul fenomeno delle “navi a perdere”, curate dal presidente Gaetano Pecorella e dall’onorevole Alessandro Bratti.
“L’impegno perché sia fatta luce sulla morte di De Grazia avvenuta come denuncia la stessa Commissione per ‘causa tossica’ – aggiunge Nuccio Barillà – deve essere il primo passo in direzione dell’accertamento più ampio della verità sulle cosiddette ‘navi a perdere’ e sui possibili intrecci con altre vicende, come quelle dei traffici illegali di rifiuti in Somalia. Nello stesso tempo verità e giustizia chiediamo per i cento morti uccisi dalla fabbrica avvelenata della Marlane di Praia e per i veleni di Crotone o del Fiume Oliva nel Cosentino”.
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