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“Ricordare alcuni uomini che hanno servito il Paese fino alle estreme conseguenze della vita, non è un semplice esercizio della memoria. E’ sentire nei gesti di ogni giorno il senso forte di un dovere che non viene dal semplice seguire le regole, ma dalla netta convinzione che non si è Poliziotti “contro” qualcuno, ma lo si è “per” qualcuno.
Per una società che ha sempre meno punti di riferimenti. Si è Poliziotti a volte con la consapevolezza e la sensazione di occupare la postazione più scomoda all’interno di un meccanismo che ogni tanto si inceppa. Il Commissario Luigi Calabresi era questo.” – E’ quanto dice Giuseppe Brugnano, Segretario Regionale del Coisp – il Sindacato Indipendente di Polizia – in occasione del 40° anniversario della morte del Commissario Capo della Polizia di Stato Luigi Calabresi, dove il Sindacato ogni anno in Calabria ricorda ed onora la sua memoria.
Il Commissario Calabresi venne ucciso il 17 maggio del 1972 in via Cherubini a Milano, proprio sotto la sua abitazione. Alcuni colpi di pistola alle spalle per il Commissario mite e discreto, da troppo tempo oggetto di odio feroce e di una campagna di stampa infamante. Luigi Calabresi, per il cui omicidio furono condannati gli ex militanti di Lotta Continua Leonardo Marino, Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani, fu ucciso non una, ma almeno due volte: una attraverso il linciaggio mediatico cui fu sottoposto e l’altra sotto il piombo dei sicari quel 17 maggio 1972.
“L’esempio di un Poliziotto che ad un certo punto si trovò in una posizione scomoda, parafulmine di evidenti mancanze – continua Giuseppe Brugnano – ascrivibili ad uno Stato che in quel momento stava perdendo la sua prima battaglia contro il terrorismo che insanguinò e purtroppo continua ad insanguinare questo Paese, ma Calabresi non abdicò mai al suo ruolo di uomo. Calabresi, racconta la storia, andava in giro disarmato, Calabresi cercava con tenacia la verità oggettiva senza farsi influenzare, Calabresi aveva il raro dono di saper ascoltare chiunque, anche gli ambienti della sinistra radicale con la quale, nonostante il suo lavoro di vice dirigente dell’allora Ufficio Politico (attuale Digos) della Questura di Milano, aveva instaurato un rapporto di reciproco rispetto.
Ebbe la sfortuna di non essere sufficientemente ascoltato da chi, in quel momento avrebbe dovuto salvaguardare lui non tanto per salvaguardare l’uomo, e gli affetti più cari come la sua famiglia, quanto per tutelare quella verità a cui il Commissario si stava avvicinando. Una verità troppo frettolosamente archiviata e di cui solo una versione è stata consegnata alla storia per la fretta di mettere in atto un’opera di pacificazione che è rimasta a livello superficiale.
Sarebbe facile e demagogico oggi, a 40 anni dalla sua morte, crearne un’icona. Ma noi crediamo invece, da Poliziotti e soprattutto da cittadini, che oggi nel Paese non occorrano icone ma esempi per tutti. Non ci vogliono icone da commemorare, ma uomini e donne capaci di seguire questi esempi. E’ nel presente che vive e si perpetra il passato. Il sangue del Commissario Calabresi è stato cancellato dalla strada in cui fu versato, il suo volto sbiadito dal tempo trascorso, ma né lui né tutti gli altri nostri Colleghi caduti nell’adempimento del loro dovere, possono essere oggi “iconizzati” solo perché le coscienze di qualcuno si sentano più pulite.
L’esempio del Commissario Calabresi – conclude il Segretario calabrese del Coisp – deve essere valorizzato e rilanciato nella società. Solo così si renderà il giusto tributo all’uomo prima e al Poliziotto dopo. Solo così quel sangue versato, dopo quarant’anni, non sarà più solo sangue di morte ma può diventare sangue di vita”.
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MILANO – Tra il dicembre del 1970 e il settembre del 1972 – e cioè prima e dopo l’omicidio del commissario Luigi Calabresi – il servizio segreto militare dell’epoca, il Sid, disponeva di un affidabilissimo spione nel vertice milanese di Lotta Continua. “Como”, questo era il suo nome in codice, partecipava a riunioni su argomenti molto delicati, conosceva leader come Giorgio Pietrostefani e Mauro Rostagno e tutti i dirigenti delle lotte operaie alla Pirelli-Bicocca dove, con tutta probabilità, lavorava. Un informatore preciso, un osservatore attento, capace di cogliere e segnalare tempestivamente l’intera attività della sinistra extraparlamentare: dai primi vagiti delle Brigate rosse alle azioni dei Comitati unitari di base. Un solo tema, curiosamente, è ignorato nelle ventisette informative che il Sismi ha inviato alla magistratura milanese, proprio quello più importante: l’omicidio Calabresi.
Probabilmente è per questo che della fonte “Como” non c’è traccia in alcuna delle indagini sull’assassinio del commissario. Né in quelle degli anni ‘70, né in quelle svolte dopo l’arresto di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Nemmeno nei fascicoli, ancora aperti, dell’inchiesta-stralcio condotta dal sostituto procuratore Massimo Meroni. Peccato, perché se “Como” fosse stato individuato e interrogato tempestivamente, avrebbe potuto dire cose molto interessanti. Oggi ne dice solo una, ma chiara e allarmante: sull’omicidio Calabresi sono state svolte inchieste scollegate, settoriali, e “a tesi”: i nuovi elementi che contraddicevano la pista più “alla moda” in un certo momento storico, venivano – e a quanto pare vengono ancora – accantonati. E’ questa, del resto, la ricetta classica che ha prodotto la pozione velenosa dei “misteri d’Italia”. Ma in questo caso c’è un ingrediente in più, dal sapore speciale, resistente: s’avverte all’inizio degli anni ‘70 ma perdura, come un retrogusto sgradevole, fino alla fine degli anni ‘80, quando Leonardo Marino decide di pentirsi davanti ai carabinieri della “Pastrengo”, gli stessi che – tramite il centro di controspionaggio di Milano – vent’anni prima avevano gestito la preziosa “fonte interna”. Le informative hanno giaciuto fino al 1993 negli archivi romani del Sismi, il servizio segreto che nel 1977 ereditò l’intera produzione del Sid. Nel giugno di quell’anno, il giudice istruttore milanese Guido Salvini, (che stava indagando su vicende del tutto diverse: l’eversione neofascista) chiese alla direzione del servizio segreto la trasmissione di “tutto il materiale prodotto” da una serie di fonti riservate nelle quali si era imbattuto. Per il giudice era quasi una operazione di routine, resa possibile dall’ottimo rapporto di collaborazione instaurato col Sismi. Una operazione, a volte, improduttiva: le richieste, infatti, venivano avanzate “al buio”, senza conoscere il settore di attività della fonte. E, nel verminaio di quegli anni, non era raro che le fonti sull’estrema destra incrociassero quelle sull’estrema sinistra. Quando il fascicolo “Como” arriva nel suo ufficio, Salvini s’accorge rapidamente che quel materiale non è utile alla sua inchiesta. Lo mette da parte. “Repubblica” ha recuperato l’intera produzione di “Como” e l’ha mostrata a una quindicina di persone: ex dirigenti di Lotta Continua (Giorgio Albonetti, Luigi Manconi, Sergio Saviori), ex leader operai della Pirelli-Bicocca (Mario Mosca, tra i tanti), ex brigatisti come Alberto Franceschini. Con varie sfumature, tutti hanno concordato sul fatto che le carte prodotte dalla fonte non possono essere il frutto di un lavoro a tavolino: quelle riunioni effettivamente si svolsero, le persone citate nei documenti (anche marginali, note in cerchie molto ristrette) in quegli anni facevano effettivamente parte dei gruppi di estrema sinistra. Raffaello De Mori, per esempio: anni dopo sarebbe stato indicato da Renato Curcio come una sorta di padre spirituale, “Como” lo individua fin dal 1971 come vicino alle Br. Tutti i testimoni dell’epoca sono rimasti piuttosto sorpresi per l’assenza di notizie sul caso Calabresi. L’unica traccia della vicenda è in poche righe di accompagnamento (datate settembre 1972) a due documenti del dibattito interno a Lotta Continua che “Como” fa avere al Servizio: “La fonte informa – annota l’agente incaricato di tenere i contatti – che le due relazioni non hanno trovato consensi in quanto non lascerebbero sufficiente spazio di manovra alle bande rivoluzionarie armate”. “Como”, come si vede, era ben tarato sui sintomi eversivi, però tace sul più grave tra i fatti di eversione accaduti nel corso della sua attività di spia. “Sarebbe molto strana – commenta il sostituto procuratore Massimo Meroni – la mancata attivazione di una fonte di tale livello in presenza di un evento tanto grave”. L’uso del condizionale nasce dal fatto che il pm Meroni ha appena saputo dal cronista dell’esistenza di “Como”. Se, come comunicò il Sismi a Salvini quando nel ‘93 accolse la richiesta di trasmissione, le ventisette informative sono veramente “tutta” la produzione, si deve immaginare che sia accaduto questo: il 19 maggio del 1972 viene ucciso il commissario Calabresi. Immediatamente i sospetti cadono su Lotta Continua (anzi, come oggi ricorda Libero Riccardelli, titolare delle prime indagini sul delitto, “erano proprio i carabinieri della ‘Pastrengo’ a spingere verso quella pista”) ma il controspionaggio di Milano, cioè gli stessi carabinieri, non attiva la fonte Un comportamento inspiegabile. Ed è stato proprio Salvini a porre l’interrogativo più inquietante. L’ha fatto a metà dello scorso gennaio, durante il dibattito pubblico nel corso del quale parlò per la prima volta (ma rispetto a uno solo dei ventisette documenti e indicando un diverso nome in codice) di questo infiltrato: “Viene il dubbio – osservò – che certe azioni siano state materialmente compiute dai militanti ma che alle spalle ci fossero interessi ben diversi”. In parole povere: secondo il giudice milanese, l’infiltrato non ha detto nulla del delitto perché sapeva che il Servizio non era contrario a che fosse commesso. Un agente provocatore. D’altra parte “Como”, in una delle informative, riferisce di essersi comportato come tale: “Io appoggio la mozione”, fa sapere a proposito dell’intervento di un delegato di Bologna che aveva sostenuto la necessità che L.C. entrasse in clandestinità. L’ipotesi di un movente istituzionale nell’omicidio Calabresi non è nuova. E’ una delle piste eterne, che ciclicamente ritornano, e che mai sono state seriamente coltivate. Di certo, dopo tanto tempo, le carte prodotte da “Como” non sono sufficienti ad accreditarla. La brusca interruzione della sequenza delle informative può essere spiegata in modo più banale: che il Sismi (tradendo la “lealtà” di cui Salvini dà atto nelle prime pagine della sua sentenza-ordinanza contro i neofascisti) abbia tenuto per sè una parte della documentazione. Questo proprio quando, dall’inchiesta sui neofascisti milanesi, emergevano nuovi elementi sulle deviazioni della “Pastrengo” negli anni ‘70. Un’omissione dolosa o un errore? Chissà. Che la produzione di un infiltrato nel vertice di Lotta Continua potesse avere qualche importanza nelle indagini sull’omicidio Calabresi, non poteva sfuggire né al Sismi né ai carabinieri. Se non altro perché il generale Umberto Bonaventura, l’uomo che nel 1988 raccolse la confessione di Leonardo Marino, entrò nella “Pastrengo” nel marzo del 1972, quando “Como” era ancora in attività. Ed era al Sismi di Roma quando le carte dell’informatore furono inviate alla magistratura. C’è una sola persona che può chiarire il mistero, ed è lo stesso “Como”. “Ma – dice il sostituto Meroni – quella per l’omicidio Calabresi non è una indagine su un reato di strage, perciò il Sismi, se chiedessi di rivelare l’identità della fonte, potrebbe validamente opporre il segreto di Stato”. Forse val la pena di tentare comunque: l’ opposizione del segreto di Stato sull’identità della fonte “Como” sarebbe già una risposta.