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Si riporta, di seguito, la versione integrale della lettera:
Caro Presidente,
colgo l’occasione della Sua visita in Calabria per renderLa partecipe della condizione di un giovane calabrese e di tanti suoi conterranei. Le indirizzo questa lettera per ciò che Lei rappresenta agli occhi di chi, come me, vede nel Suo ruolo istituzionale il simbolo di uno Stato di cui mi sento parte e di cui sento ancora il dovere di prenderne le difese. Uno Stato fondato sull’Uguaglianza e sul Lavoro, nato dalla Resistenza di chi non ha mai smesso di pensare e ha avuto il coraggio e la responsabilità di Resistere.
Le parole del Suo discorso di fine anno risuonano di una eco amara per chi vive una realtà, quella della nostra terra, che non conosce “serenità” da troppo tempo. Lei parla di “nuove generazioni, di riserve magnifiche di energia, di talento e di volontà”, di motivazione e qualità, specializzazione ed energie dei “giovani che hanno potuto prendere le strade migliori”. Lei sottolinea l’importanza di garantire opportunità di formazione capaci di far emergere i talenti e premiarne il merito. Le scrivo perché, a chi vive in questa terra maledettamente bella, fa rabbia sentirsi impotenti di fronte all’impossibilità di aprire tali strade.
I preoccupanti dati che sono emersi dal Rapporto Swimez 2008, sull’Economia del Mezzogiorno, e dall’ultimo report della Banca d’Italia, sulle dinamiche migratorie interne, denunciano che tra il 1990 e il 2005 circa 2 milioni di persone hanno abbandonato il Mezzogiorno per cercare lavoro al Nord e, nel periodo 2000-2005, circa 80000 laureati hanno lasciato il Sud.
Le scrivo, dunque, con l’amara consapevolezza che spesso al Sud “l’unica strada possibile” per un giovane è quella di andare via. Innanzi a tale costrizione, come non sentirsi impotenti?
Questa impotenza, dovuta al fatto che troppo spesso ci piombano addosso, come macigni, problemi ed avvenimenti che dovrebbero essere impensabili in un paese che si ritiene civile, come morire in sala operatoria per mancanza di energia elettrica, fa sembrare la via più facile quella della resa.
In Calabria è quando non smetti di credere nel cambiamento e continui ad impegnarti e lottare in prima linea, attivamente, che paghi il prezzo più alto della frustrazione. Perché ogni volta si ha la sensazione di sbattere contro un muro di gomma e si è costretti a tornare indietro e ricominciare daccapo. Muro che spesso viene costruito proprio da chi dovrebbe contribuire ad abbatterlo.
Ad ogni modo, per chi vuole rimanere in Calabria senza arrendersi ad un sistema deviato, non è possibile smettere di lottare. E la lotta diventa sempre più necessaria per rincorrere la possibilità di avere una vita dignitosa e vedersi riconosciuti i propri diritti fondamentali.
Fino a quando dovremo lottare strenuamente per elemosinare un lavoro spesso in nero, precario ed insicuro; per avviare una sana e seria iniziativa imprenditoriale senza ritrovarci le porte chiuse in faccia dalle banche; per vivere la nostra quotidianità in un ambiente salubre e non violentato e deturpato da colate di cemento, abusivismo, frane, veleni radioattivi e discariche abusive; per avere strade sicure e ammodernate, trasporti efficienti; per ambulanze attrezzate in ogni ospedale, per una sanità liberata da interessi criminali e clientelari; per essere veramente “liberi” di vivere e costruirci qui, qui nella nostra amata Terra!, un destino diversamente possibile?
È troppo comodo parlare di Calabria e parlare di ‘ndrangheta, mancanza di lavoro, carenze infrastrutturali e cedere al luogo comune della disperazione e del lassismo, dell’apatia e della rassegnazione. Quello che è successo nelle ultime settimane ci impone di dare un taglio diverso alla discussione. Non possiamo non interrogarci, dal mio modesto punto di vista, sull’ottusità di una classe dirigente che pensa a grandi opere da cartolina in un contesto sempre più desertico.
Qualche giorno fa si leggeva di questo potere come di “Un potere ottuso, per nulla incline a mettersi in discussione, arrogante fino alle estreme conseguenze. Un potere multiforme, che significa navi dei veleni, cantieri eterni, dominio della mafia, politica clientelare e grandi opere.” Sembra una descrizione impietosa ma appare oggi, purtroppo, estremamente realistica. È una politica che, da decenni ormai ed in molti casi, sembra stare in piedi solo per gestire l’ordinario e le emergenze, senza poi di fatto offrire ai propri territori un progetto organico e complessivo che abbia la valenza di soddisfare le vere esigenze ed i reali bisogni della collettività e che incida in modo sostanziale per migliorare la qualità della vita di tutti i cittadini.
Il 19 dicembre a Villa San Giovanni, i calabresi che non si arrendono a questo stato di cose, erano in strada per manifestare l’esigenza di un diverso ordine di priorità. Franco Nisticò da quella piazza stava urlando, con la stessa intensità di sempre tratta dalla forza delle idee e della vita reale: la denuncia di una disoccupazione giovanile preoccupante, del dissesto idrogeologico calabrese, delle grandi e delicate questioni ambientali irrisolte, della carenza delle infrastrutture e del sistema sanitario, rimarcando ancora una volta il problema della S.S.106 che continua ad essere un incessante e assurdo bollettino di guerra.
E proprio di quelle carenze ne ha pagato il prezzo più estremo, morendo e perdendo in modo assurdo la propria vita. In Calabria si può morire per un’ambulanza che non c’è e/o che non arriva in tempo. Franco Nisticò era mio padre.
Ed allora i tanti giovani calabresi stanchi di questo stato di cose chiedono alla Politica di scegliere tra la logica delle grandi opere, l’immobilismo, l’assenza di innovazione, la frammentazione del consenso, la sclerosi amministrativa e la vita reale.
E il problema in Calabria, perciò, non è solo trovare una realizzazione personale, non è trovare una strada per il proprio successo individuale. L’urgenza è trovare una strada collettiva che porti i cittadini calabresi a riconoscersi finalmente nello Stato.
Qui non si tratta più di sterili piagnistei usati come alibi, ma di chiedere ed ottenere diritti. E non possono più essere ammesse deroghe. È necessario rendere tangibile un’alternativa a questo potere clientelare e occulto, a questo sistema malato, fondato sulla mancanza di una vera libertà che potrà essere arginato solo attraverso l’emancipazione data dal LAVORO.
La nostra terra di Calabria è da sempre segnata da contraddizioni profonde. Una terra capace di dare vita a realtà esemplari di integrazione e accoglienza, come Riace, Caulonia e Badolato, dove i migranti sono accolti come una risorsa, non solo dal punto di vista umano e culturale, ma anche sotto il profilo della ripresa economica. Una Terra, allo stesso tempo, in grado di esprimere realtà esplosive come quella di Rosarno dove ‘ndrangheta razzismo e ignoranza, ma anche solidarietà, si sono sciolte, portando con sé l’illusione della convivenza. Convivenza illusoria perché non ci può essere convivenza tra schiavo e padrone.
È necessario riflettere sulla rabbia di chi non ha più niente se non la sua dignità e sul potere di chi la dignità l’ha dimenticata da tempo.
No, nonostante tutto non smetteremo di lottare “… i tanti problemi del nostro territorio, il dissesto idrogeologico, i giovani, il lavoro, non hanno bisogno di divisione, ma hanno bisogno di unità. Dobbiamo lottare con forza e tutti insieme sconfiggere chi marcia contro. E allora la speranza siamo tutti noi, vecchi e giovani, per dare insieme una speranza a questa Calabria abbandonata da tutti.” (Franco Nisticò)
Sappiamo fin troppo bene che solo questa è la Sua e la Nostra speranza per la nostra Terra.
Guerino Nisticò
(Badolato – Calabria – Italia?)
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