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Quasi tre ore di confronto serrato, a volte duro, carico di emotività e di momenti di forte emozione. E’ con questo stato d’animo che è stato vissuto il secondo incontro al carcere di Reggio promosso dal Centro Servizi al Volontariato, dal Tribunale di Sorveglianza e dalla Casa Circondariale, sui temi del reato, della pena e della giustizia riparativa.
Un incontro per certi versi anomalo tra detenuti-la maggior parte ancora in attesa di giudizio- con un Pubblico Ministero, Stefano Musolino, titolare di diverse inchieste in corso sulla criminalità organizzata, inchieste che vedono coinvolti anche diversi soggetti ristretti proprio nel carcere di Reggio.
Incontro anche con un familiare di vittima della ndrangheta, il figlio Antonio del Maresciallo della Polizia penitenziaria Filippo Salsone di Brancaleone barbaramente ucciso nel 1986 mentre dal carcere di Reggio rientrava a Brancaleone con la sua famiglia.
L’incontro si è aperto con le introduzioni dell’educatore Emilio Campolo, del Presidente del CSV Mario Nasone, e del Direttore Maria Carmela Longo che hanno sottolineato la valenza formativa degli incontri programmati tesi a favorire una crescita culturale ed una maggiore consapevolezza sulle scelte di vita che ogni detenuto è chiamato a fare per sé e per la propria famiglia.
Antonio Salsone ha espresso la sua emozione di ritrovarsi tra le “mura amiche” del carcere dove veniva con la madre a trovare il padre, un uomo che ha definito “persona normale”, un fedele servitore dello Stato che sapeva che sarebbe stato ammazzato, ma che non ha desistito fino all’ultimo dal suo dovere di fare rispettare nelle carceri la legalità e le regole della legge contro chi voleva esercitare soprusi ed intimidazioni. Ha raccontato ai detenuti la vicenda del padre con una serenità che ha colpito profondamente i detenuti affermando che come famiglia non hanno mai nutrito sentimenti di rancore e di vendetta, anche se tutt’oggi continuano a chiedere giustizia ed in particolare che gli autori dell’omicidio di Filippo Salsone, ancora sconosciuti, siano individuati e processati. Crede nella funzione rieducativa della pena e del dovere dello Stato di offrire una seconda chance a chi ha sbagliato. Ai detenuti, nel rispetto di quello che sarà per ognuno la conclusione dell’iter processuale, ricorda che prima di arrivare alla giustizia riparativa è necessario riconoscere l’errore, la rottura del patto di legalità con lo Stato distrutto con la commissione del reato, riscoprire i valori autentici della vita e poi sarà possibile avviare un percorso di riconciliazione. In questo percorso i familiari delle vittime possono svolgere un ruolo importante per aiutare con la loro testimonianza a ricomporre queste fratture.
Il confronto con Stefano Musolino, Magistrato della DDA della procura di Reggio Calabria, è stato più acceso e vibrante, risentendo ovviamente della sofferenza e della rabbia di chi vive una condizione di imputato e di carcerazione preventiva spesso non accettata e chiede efficienza, rapidità ed equità alla Magistratura inquirente.
Il Magistrato non si è sottratto al confronto, pur non potendo ovviamente entrare nel merito delle singole vicende processuali, riconoscendo che errori giudiziari sono sempre possibili ma che il nostro sistema giudiziario è garantista. Ha esordito in modo diretto parlando da reggino ai reggini, mettendo il dito in quella che rappresenta la vera piaga della nostra comunità: la ndrangheta. Ha ricordato che anche Lui come reggino ha vissuto il dramma dei morti ammazzati che vedevi uscendo di casa, ha visto le ferite che drammaticamente hanno segnato in questi anni la città e la provincia fino ad arrivare addirittura agli scioglimenti dei Comuni per mafia. Al di là delle responsabilità personali di ogni detenuto ha chiesto di riconoscere che nel nostro territorio c’è un problema ndrangheta, un fenomeno che impedisce investimenti produttivi nella nostra terra, la possibilità di fare libera impresa e quindi di garantire un futuro di lavoro nella legalità anche ai loro figli. Di fronte ad una città che sta andando alla malora ognuno si deve porre la domanda:cosa posso fare io? A chi tra i detenuti contestava come l’associazione mafiosa sia diventato il capo d’imputazione che oggi si attribuisce con estrema facilità ha chiesto che l’unica strada per evitare questo è quella di rifiutare il rapporto con il mafioso, anzi il mafioso deve diventare il mio nemico, da lui devo stare lontano. P
rovocatoriamente ha affermato che il mafioso è peggio del pedofilo che in carcere viene invece emarginato e disprezzato. Che vi sono tanti malati di ndrangheta proprio per questo rapporto di vicinanza che contagia negativamente. Nel dibattito è emerso anche il tema dei figli dei mafiosi, uno di questi prendendo la parola ha chiesto cosa deve fare per riscattarsi uno come lui che porta un nome pesante e quindi anche il rischio concreto di essere perseguito dalla legge per questa appartenenza.
Il Magistrato ha riconosciuto la difficoltà di chi vive questa condizione, ma ha chiesto anche a loro di fare una scelta, di prendere le distanza dal modello di vita del padre, di tenersi lontano dai meccanismi della vita mafiosa e di sperimentare percorsi esistenziali di vita alternativi. Tanti lo hanno fatto e quindi è possibile. Riconosce che lo Stato deve fare di più per offrire opportunità a chi si vuole redimere. Ha ricordato infine che come Associazione Magistrati recentemente hanno visitato il carcere per conoscere meglio le condizioni di vita della popolazione penitenziaria ed ha assicurato il loro impegno ad essere vicini al carcere ed a sostenere i programmi di recupero sociale e lavorativo che si decideranno. Concludendo i lavori Mario Nasone ringraziando i detenuti per la partecipazione attiva all’incontro ha espresso l’auspicio che il l’incontro porti frutto in ognuno dei presenti per potere insieme sperare e costruire un futuro diverso per la nostra comunità nel segno della legalità, della giustizia sociale partendo dall’assunzione delle proprie responsabilità personali.
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