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“Leggere le mafie dall’estero” è stato il tema dominante del XVI appuntamento di Tabularasa. In una gremita Torre Nervi, alla Luna Ribelle, ieri sera a parlare di mafia, informazione e giustizia, insieme ai due organizzatori del Contest Giusva Branca e Raffaele Mortelliti, il fratello di Peppino, Giovanni Impastato, il Direttore del “Museo della ‘ndrangheta” Claudio La Camera ideatore insieme a Strill.it del workshop di giornalismo investigativo “’’Ndrangheta stereotipe and reality” e il giornalista Claudio Cordova.
“Dobbiamo uscire dall’isolamento, spezzare il cono d’ombra informativo, eliminare stereotipi, mettere in luce il territorio e dare il più possibile una visione globale di questa realtà – esordisce La Camera – Da qui l’esigenza di fare un workshop per formare giornalisti stranieri che hanno visto i nostri luoghi, intervistato magistrati e parenti delle vittime, ma soprattutto ha puntato a rompere quell’immagine contorta della nostra terra. Qui mancano le scuole di formazione e un’economia che consenta al giornalista una sopravvivenza minima e dignitosa ma non possiamo arrenderci. Dobbiamo invece costruire un altro linguaggio di comunicazione capace di superare la violenza”.
Il mestiere del giornalista non è per nulla facile soprattutto al Sud dove ancora ci sono pregiudizi e mentalità chiuse. Ne sa qualcosa la giovane penna di Strill.it, Claudio Cordova che rimarca le difficoltà di un lavoro bello e affascinante che però pecca per “la mancanza di strutture dove potersi formare, di organi di informazione e di spazi nella propria città. E’ facile scoraggiarsi ma il giornalismo è una professione che si fa solo se si ha una forte passione – aggiunge – Svegliatevi prima che sia troppo tardi, questa città è uscita dal cono d’ombra ma è ancora dentro ad un cono d’ombra emotivo”.
Parla del fratello la cui storia è raccontata nel suo libro “Resistere a Mafiopoli. La storia di mio fratello Peppino Impastato”, Giovanni Impastato che dice: “il 9 maggio del ‘78 con la morte di Peppino è iniziato un nuovo percorso, fatto di tantissimo lavoro, grande fatica e sofferenza. Peppino era un giovane militante della sinistra, un giornalista impegnato nella lotta contro la mafia, l’unico vero caso di rottura: ha operato una rottura storico-culturale non solo nella società ma nella sua famiglia. Insieme ad un gruppo di compagni fonda il giornale “L’idea socialista”, e con le sue denunce è riuscito a bloccare progetti speculativi. Il giornale era troppo scomodo però, e ben presto fu costretto a chiudere: Peppino venne denunciato dal sindaco, e da allora cominciò a salire e scendere i gradini del palazzo di giustizia”. Giovanni delinea l’operato di quel ragazzino impegnato in battaglie ecologiche, sociali, culturali ma anche presenta quell’uomo “che pur portando un cognome ingombrante, cercava sempre di comunicare con la gente, era un buon figlio del suo tempo”.
“La nostra infanzia è stata bellissima ma dopo la strage del 1963 quando venne assassinato lo zio Cesare Manzella, capo della Cupola, le nostre vite cambiano, nasce la coscienza critica di mio fratello. Peppino va alla ricerca della verità e dopo qualche settimana, dice alla sua famiglia che si batterà contro la mafia sino alla morte. Dopo 15 anni lui fa la stessa fine dello zio”. Giovanni ripercorre quel periodo ma anche ricorda gli 8 giornalisti uccisi in Sicilia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro, Peppe Impastato, Mauro Rostagno, Giovanni Spampinato, Mauro Francese , Giuseppe Fava.
“Non possiamo e non vogliamo dimenticarli – dice Giovanni – Ognuno di loro ha dato il suo contributo alla lotta contro la mafia. Se vogliamo possiamo sconfiggerla, non è un problema di ordine pubblico ma è un problema culturale. La mafia non è invincibile, i mafiosi non sono marziani, sono uomini con le loro debolezze. Qui domina la cultura dell’illegalità ecco perché dobbiamo entrare nelle scuole per parlare con i giovani, far capire loro che i mafiosi sono forti perché hanno legami, connivenze a livelli istituzionali che vanno spezzati. Per sconfiggere la mafia dobbiamo portare avanti un progetto economico e culturale. Falcone diceva: ogni cosa ha un inizio ed una fine, è lo stesso per la mafia”.
Peppino dava fastidio da vivo ma da morto a chi dà fastidio? – chiede il giornalista Branca.
“Peppino non era una figura istituzionale ed era scomodo perché era un uomo di rottura: ha fatto capire che se si vuole si può rompere con la mafia – conclude Impastato – Ancora oggi Peppino è scomodo perché noi siamo riusciti a tenere in vita le sue idee sempre attualissime, è scomodo perché lui ci ha fatto capire il vero concetto di legalità: è il rispetto della dignità umana. La storia di Peppino è la storia di questo paese, piena di umanità”.
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