CAPITOLO
I
Il capitolo si apre con la descrizione dei luoghi dove si
ambientano le prime fasi del romanzo: il lago, i monti che
lo circondano, il fiume Adda, la città di Lecco, i
paesini circostanti e le stradine che li collegano. Don Abbondio,
il curato del paese, passeggia, come d'abitudine, leggendo
il breviario, ma ad una biforcazione della strada, nei pressi
di un tabernacolo dipinto, vede due loschi personaggi, dal
loro aspetto e dal loro portamento, don Abbondio capisce subito
che sono due bravi, guardie del corpo dei nobili, ma anche
loro sicari. Comprendendo che i bravi stanno attendendo lui,
don Abbondio cerca vie di fuga o eventuali testimoni, ma poi,
vista l'assenza delle une e degli altri, si avvicina ai due
fingendosi tranquillo. I bravi sbarrano la strada al curato
e gli impongono, con le minacce, di non celebrare il matrimonio
tra Renzo e Lucia. Don Abbondio, spaventato, si dichiara più
volte disposto all'obbedienza, specie quando sente il nome
di don Rodrigo, il padrone dei due bravi. Ancora spaventato
dall'incontro, don Abbondio riprende la via di casa immaginando
la reazione di Renzo quando gli avrebbe detto che non avrebbe
più celebrato il matrimonio. Giunto a casa propria,
il curato chiama Perpetua, la sua serva: una donna decisa,
ma un pò bisbetica e pettegola. Dopo qualche esitazione
don Abbondio si confida con lei, ma non accetta i suoi saggi
consigli. Infine, stremato, va a dormire, raccomandando a
Perpetua la massima segretezza.
CAPITOLO II
Don Abbondio passa una notte agitata tra ricerche di scuse
per non celebrare il matrimonio e incubi popolati di bravi
e di agguati. Tra il sogno e la veglia egli elabora un piano
per superare le prevedibili obiezioni di Renzo e ritardare
così le nozze. Renzo si reca da don Abbondio che finge
di non ricordarsi del matrimonio, poi, utilizzando termini
latini per confondere il giovane, lascia intendere che sono
sopravvenuti degli impedimenti che obbligano a ritardare le
nozze. Renzo accondiscende allo spostamento, ma rimane insospettito
dal comportamento del parroco. Renzo si dirige allora verso
casa di Lucia, ma, parlando con Perpetua, riceve conferma
dei propri sospetti e capisce che don Abbondio è stato
minacciato da qualcuno. Renzo torna velocemente da don Abbondio
e dopo aver imprigionato il parroco nel suo stesso salotto,
il giovane lo costringe a dirgli la verità. Perpetua
rientra e don Abbondio l'accusa di aver infranto il giuramento
del silenzio fatto la sera prima, dopo un acceso battibecco
tra i due, don Abbondio si mette a letto vinto dalla febbre.
Renzo si dirige nuovamente verso casa di Lucia, nella sua
mente passano fieri propositi di vendetta, ma al pensiero
di Lucia abbandona ogni ipotesi violenta. Giunto nel cortile
della casa di Lucia, Renzo incarica una bambina di chiamare
in disparte Lucia e di condurla da lui. Lucia scende al piano
terreno e Renzo la mette al corrente dell'accaduto; Lucia
mostra di essere al corrente della passione di don Rodrigo
per lei: Ai due si aggiunge poi Agnese, la madre di Lucia,
curiosa di sapere che cosa stessero dicendo i due giovani.
Lucia sale a congedare le donne dicendo che il matrimonio
è rimandato a causa di una malattia del parroco. Alcune
donne si recano allora alla canonica per chiedere conferma
della malattia del curato e Perpetua dice loro che don Abbondio
ha un febbrone.
CAPITOLO III
Lucia mette al corrente Agnese e Renzo di quanto essi ancora
non sanno: don Rodrigo aveva un giorno avvicinato la giovane
per la strada e aveva scommesso con un altro nobile che la
ragazza sarebbe stata sua. Lucia rivela poi di aver narrato
l'accaduto a fra Cristoforo. Dopo che Lucia ha placato l'ira
di Renzo, Agnese consiglia il giovane di recarsi a Lecco da
un avvocato soprannominato Azzecca-garbugli e gli consegna
quattro capponi da portare in dono al dottore. Il mattino
seguente Renzo si reca dall'avvocato che lo scambia per un
bravo e, per intimorirlo, legge confusamente una grida che
annuncia pene severissime per chi impedisce un matrimonio.
Renzo nega di essere un bravo, ma l'avvocato non gli crede
e lo invita a fidarsi di lui, prospettando una linea di difesa;
scoperto l'equivoco, Azzecca-garbugli si infuria e rifiuta
ogni aiuto, mettendo infine Renzo alla porta. Frattanto Lucia
e Agnese si consultano nuovamente tra loro e decidono di chiedere
aiuto anche a fra Cristoforo. Alla casa delle due donne giunge
fra Galdino, cercatore del convento dei cappuccini di Pescarenico
che, come ogni anno, andava girando di casa in casa per la
raccolta delle noci. Lucia dona al frate una grande quantità
di noci affinché egli possa recarsi subito al convento
ed esaudire la sua richiesta di inviare presso di loro fra
Cristoforo. Renzo fa ritorno alla casa di Lucia e racconta
il pessimo risultato del suo colloquio con Azzecca-garbugli.
Tra Renzo e Agnese si accende una piccola discussione, subito
placata da Lucia, circa la validità del consiglio di
rivolgersi all'avvocato. Dopo alcuni sfoghi di Renzo ed altrettanti
inviti alla calma da parte delle donne, il giovane torna a
casa propria.
CAPITOLO IV
Quando fra Cristoforo esce dal convento per recarsi a casa
di Lucia, il sole non è ancora apparso all'orizzonte;
il convento è abbastanza lontano dalla casa e durante
il cammino, il frate si chiede il motivo della chiamata di
Lucia. Fra Cristoforo è un uomo vicino ai sessanta
anni, con una lunga barba bianca che gli copre il volto. Il
suo nome di battesimo era stato Lodovico, il padre era un
ricco mercante che si vergognava del proprio mestiere e si
comportava come un nobile. Il giovane Lodovico non venne accettato
nella cerchia dei nobili, e, quasi per vendetta inizia a difendere
gli umili contro i nobili oppressori. Un giorno per strada
scoppiò una disputa per futili motivi tra Lodovico
ed un nobile prepotente; nel corso della disputa che ne segue,Lodovico,
vedendo gravemente ferito Cristoforo, il suo più fedele
servitore, uccide il nobile prepotente. Lodovico viene condotto
dalla folla nel vicino convento dei frati cappuccini, affinché
possa trovare riparo dalla vendetta dei parenti dell'ucciso.
questi intanto circondano il convento al fine di uccidere
Lodovico alla sua uscita. Durante la sua permanenza in convento
Lodovico matura la decisione di farsi frate. Dona tutti i
suoi beni alla famiglia del servo Cristoforo che era morto
per lui e assume il nome di fra Cristoforo. intanto il padre
guardiano del convento convince il fratello del nobile ucciso
ad accettare come rivalsa la scelta monacale di Lodovico.
Prima di partire per il luogo del suo noviziato, fra Cristoforo
chiede ed ottiene di domandare scusa alla famiglia dell'ucciso;
in casa del nobile vengono convocati tutti i parenti per assaporare
la vendetta, ma con il suo contegno umile, fra Cristoforo
ottiene un sincero perdono da tutti e induce i presenti a
mitigare la loro superbia. Fra Cristoforo arriva a casa di
Lucia e viene accolto con gioia da Lucia e da Agnese.
CAPITOLO V
Fra Cristoforo giunge a casa di Lucia e si fa raccontare dalle
donne l'accaduto; esaminata la situazione decide di andare
a parlare con don Rodrigo per distoglierlo dal suo proposito.
Giunge frattanto anche Renzo, il quale rivela di aver tentato
invano di organizzare un agguato contro don Rodrigo e per
questo viene rimproverato da fra Cristoforo. Questi s'incammina
verso il palazzotto di don Rodrigo, dopo aver parlato con
due bravi e con un servitore, molto sorpreso di vederlo lì,
fra Cristoforo viene introdotto nella stanza da pranzo. Attorno
al tavolo alcuni personaggi discutono animatamente su una
questione di cavalleria, fra Cristoforo è chiamato
ad esprimere un giudizio, ma la sua sentenza viene scambiata
per una battuta di spirito. La disputa cambia tema e volge
poi sulla guerra per il ducato di Mantova e sulle relative
manovre politiche di Spagna, Francia, Germania e papato. Le
discussioni vengono abbandonate per un attimo per lasciare
posto ad un brindisi, ma subito riprendono sul tema della
carestia evocato da Azzecca-garbugli in un suo elogio al vino.
E' don Rodrigo a porre fine al dibattito congedando i commensali.
Don Rodrigo conduce fra Cristoforo in un'altra stanza per
parlare.
CAPITOLO VI
Don Rodrigo e fra Cristoforo, iniziano il colloquio che si
trasformerà ben presto in un duello verbale; al termine
il frate viene cacciato, La sua missione è fallita,
ma don Rodrigo rimane scosso dalle minacciose profezie del
cappuccino. Uscendo il frate incontra il vecchio servitore
che l' aveva accolto prima, quest'ultimo dice a fra Cristoforo
di avere delle rivelazioni da fargli e gli dà appuntamento
per l'indomani al convento. Fra Cristoforo abbandona il palazzotto
e si incammina verso la casa di Lucia. Intanto in casa di
Lucia, Agnese propone ai due promessi di effettuare il matrimonio
di sorpresa, di presentarsi cioè davanti al parroco
con due testimoni e di pronunciare la formula del matrimonio.
Sebbene celebrato contro la volontà del parroco, questo
matrimonio avrebbe valore a tutti gli effetti. Renzo si mostra
entusiasta, ma Lucia è contraria al progetto poiché
esso prevede dei sotterfugi. Renzo, in cerca di testimoni
per il matrimonio di sorpresa, si reca a casa di Tonio, lo
invita all'osteria e gli chiede di far da testimone al matrimonio.
In cambio del favore, Renzo offre a Tonio il denaro per pagare
un debito contratto con do Abbondio, Tonio accetta e propone
suo fratello Gervaso come secondo testimone. Renzo torna alla
casa di Lucia e tenta nuovamente di convincere quest'ultima
ad accettare il "piano" della madre. Nel frattempo
si odono i passi di fra Cristoforo, giunto per riferire gli
esiti del colloquio con don Rodrigo.
CAPITOLO VII
Fra Cristoforo informa Agnese e i due promessi circa l'esito
della propria missione, Renzo reagisce con rabbia; uscendo,
il frate raccomanda di inviare qualcuno al convento il giorno
successivo, per avere nuove informazioni. Renzo, irritato
dal comportamento di don Rodrigo e dall'opposizione di Lucia
al progetto di matrimonio a sorpresa, dà in escandescenze.
Alla fine Lucia cede e accondiscende al piano della madre,
Renzo rincasa perché si era fatto molto tardi ma ritorna
di buon ora a casa delle due donne per stabilire i dettagli
del matrimonio. Agnese invia al convento Menico, un ragazzino
suo parente, al posto di Renzo. Per tutta la mattinata dei
loschi figuri si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia,
curiosando all'interno dell'abitazione. Il giorno precedente,
dopo lo scontro con fra Cristoforo, don Rodrigo , furibondo
per non essere riuscito ad intimorire il frate e turbato per
quel "Verrà un giorno",cammina per il palazzo
al cospetto dei ritratti dei suoi avi. Scortato dai bravi,
don Rodrigo esce dal suo palazzotto per una passeggiata trionfale
durante la quale viene ossequiato da tutti, tornato al palazzotto,
viene deriso dal conte Attilio; risentito egli raddoppia allora
la posta dell'infame scommessa. Il giorno dopo, don Rodrigo,
dimenticati i timori suscitati in lui da fra Cristoforo, predispone
con il capo dei suoi bravi, il Griso, un piano per rapire
Lucia. I bravi, guidati dal Griso, cominciano le loro ricognizioni
in casa di Lucia ( gli strani figuri visti nella casa sono
i bravi travestiti). Tornati al palazzotto, il Griso dà
le ultime istruzioni ai suoi compagni. Il vecchio servitore
si avvia alla volta del convento per riferire al frate ciò
che ha sentito. Nel frattempo alcuni bravi hanno già
occupato le posizioni concordate ed altri si avviano a farlo.
Tornando ora alle vicende di Lucia e Renzo, troviamo quest'ultimo
che prende gli ultimi accordi con Agnese e Lucia. Renzo, Tonio
e Gervaso si recano all'osteria e qui incontrano tre individui
(sono tre bravi di don Rodrigo) dal comportamento minaccioso.
Renzo, durante la cena, chiede all'oste informazioni sui tre,
ma l'oste finge di non conoscerli; al contrario egli fornisce
ai bravi diverse notizie su Renzo e sui suoi amici. Usciti
dall'osteria Renzo, Tonio e Gervaso, vengono seguiti da due
bravi, che si arrestano, però, vedendo arrivare gente
di ritorno dai campi. I tre amici passano a chiamare Agnese
e Lucia e insieme si recano alla canonica, dove Tonio bussa
alla porta e dice a Perpetua di voler saldare un debito.
CAPITOLO VIII
Don Abbondio abbandona le letture in cui si era immerso e
autorizza Perpetua a far salire Tonio. Perpetua scende in
strada e lì inizia, con Agnese, una conversazione a
proposito di alcune maldicenze sul suo conto. Tonio e Gervaso
accedono allo studio del curato, mentre Renzo e Lucia, approfittando
della distrazione di Perpetua raggiungono il pianerottolo
della canonica. Tonio salda il suo debito, il curato esamina
le monete, restituisce il pegno e inizia a compilare una ricevuta.
A un segnale convenuto entrano anche i due promessi sposi,
Renzo pronuncia l'intera formula del matrimonio, mentre Lucia
viene interrotta dal curato, che si rifugia in una stanza
attigua e chiede aiuto dalla finestra. Ambrogio, il sacrestano,
suona allora le campane per richiamare la gente del paese,
i rintocchi svegliano l'intero paese e qualcuno scende in
strada per capire cosa sta succedendo. Frattanto, circa mezz'ora
prima, i tre bravi che erano all'osteria, erano usciti per
una ricognizione, poi avevano chiamato i compagni appostati
al casolare e , agli ordini del Griso, erano penetrati in
casa di Lucia, ma non avevano trovato la vittima. Menico,
di ritorno dal convento, era entrato in casa di Lucia ed era
subito stato afferrato dai bravi che però, spaventati
dal suono delle campane, lo avevano lasciato andar via mentre
essi stessi fuggivano disordinatamente, il Griso li richiamò
all'ordine e la fuga proseguì a ranghi compatti. Prima
che Ambrogio suonasse le campane, Agnese continuava a distrarre
Perpetua, ma, sentite le grida di don Abbondio e i rintocchi
delle campane, le due donne corrono verso la canonica. Renzo
e Lucia si ricongiungono con Agnese e vengono raggiunti da
Menico, che dice loro di fuggire verso il convento e li segue
per un tratto. Intanto la gente si raduna in piazza e si reca
da don Abbondio.Visto che quest'ultimo non è più
in pericolo, la folla si sposta alla casa di Lucia e scopre
che le due donne sono sparite. Dopo qualche progetto di inseguimento
dei presunti rapitori, corre voce che le donne siano salve
e tutti si ritirano. Il mattino successivo il console sarà
minacciato da due bravi che gli intimano di non riferire al
podestà i fatti della notte precedente. Renzo, Lucia
e Agnese si sono intanto allontanati attraverso i campi, accompagnati
da Menico che, raccontata la sua avventura, viene rimandato
a casa. I tre fuggitivi giungono al convento di Pescarenico,
dopo aver vinto le resistenze di fra Fazio, il sacrestano,
fra Cristoforo li fa entrare nella chiesa del convento ed
illustra i piani di fuga che ha predisposto per loro. Dopo
aver pregato per don Rodrigo, i tre lasciano il convento e
si dirigono verso il lago, qui salgono su di una barca che
li attendeva, Lucia guarda il paesaggio così familiare
mentre piange segretamente e da l'addio ai monti e ai luoghi
natii.
CAPITOLO IX
I tre fuggitivi approdano sulla sponda del lago opposta a
Pescarenico e si accomiatano dal barcaiolo che la aveva trasportati.
Guidati da un barrocciaio, i tre giungono fino a Monza su
di un carro, qui possono riposarsi e rifocillarsi in una locanda.
Dopo un breve pasto Renzo da l'addio alle due donne. Sempre
sotto la guida del barrocciaio, le due donne si recano prima
al convento dei cappuccini e poi, accompagnate dal padre guardiano,
al monastero di monache nel quale sperano di trovare ospitalità.
Qui incontrano la monaca di Monza , la madre superiora del
convento, che interroga le due donne e il padre guardiano
a proposito delle vicende di Lucia, al termine del colloquio
concede ospitalità ad Agnese e a Lucia. A questo punto
l'autore inizia un flash-back sulla biografia di Gertrude,
il vero nome della monaca di Monza. Viene descritta la famiglia
di Gertrude e la regola in essa vigente, secondo la quale,
tutti i figli, ad esclusione del primogenito dovevano entrare
in convento; la prima infanzia di Gertrude e tutti gli espedienti
adottati dai parenti per inculcarle l'idea della vita consacrata,
l'infanzia e l'adolescenza di Gertrude, la sua educazione
nel convento di Monza, i suoi rapporti con le compagne, i
primi cenni di rifiuto della vita religiosa. Prima di prendere
definitivamente i voti, Gertrude viene ricondotta nella casa
paterna, qui viene trattata con indifferenza ed isolata al
fine di metterla a disagio e di farle desiderare il convento.
Scoperto il suo innamoramento per un paggio, Gertrude viene
imprigionata in una stanza. per uscire da quella segregazione,
ella si dichiara disposta a scegliere la vita consacrata.
CAPITOLO X
L' autore continua la narrazione della vita di Gertrude. Colta
in un momento di debolezza, Gertrude, forzata dal padre, accetta
di entrare in convento, viene così dato l'annuncio
della decisione della ragazza ed iniziano i festeggiamenti.
Dopo le ultime raccomandazioni sul contegno da tenere e sulle
risposte da dare alla badessa, Gertrude viene condotta nel
monastero per la presentazione della domanda di ammissione.
in convento vengono organizzati grandi festeggiamenti.Tra
il principe e la badessa avviene un colloquio molto formale
volto a stabilire la sincerità della vocazione di Gertrude.
Ritornata a casa, Gertrude sceglie la "madrina"
che l'accompagnerà alla monacazione. il vicario incaricato
di valutare la sincerità della vocazione di Gertrude
interroga la fanciulla, la quale, per timore del padre, mente
e dichiara di scegliere liberamente la vita claustrale. Gertrude
diviene "monaca per sempre" e maestra delle educande.
La vita del chiosco non allontana però la giovane dalle
passioni terrene. i suoi primi anni in monastero sono dunque
segnati dall'odio verso le altre suore e da improvvisi cambiamenti
d'umore. La giovane donna si lascia sedurre da Egidio, un
nobile che abita in un palazzo attiguo al monastero: sotto
la sua nefasta influenza Gertrude si lascia trascinare dalle
passioni più violente e giunge all'omicidio di una
conversa. Qui termina la biografia di Gertrude e l'autore
torna al colloquio con Lucia. Rimasta sola con Lucia, Gertrude
le pone domande indiscrete sui suoi rapporti con Renzo e con
don Rodrigo. Lucia confida alla madre la propria inquietudine
per la stranezza della signora, ma Agnese tranquillizza la
figlia. Le due donne vengono accolte nel convento, alloggiate
nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro e trattate
come se fossero addette al servizio del monastero.
CAPITOLO XI
Dopo la digressione rappresentata dalla storia di Gertrude,
l’attenzione del Manzoni si rivolge a don Rodrigo, quasi
per costituire un motivo di distensione dopo le losche vicende
narrate. Al sicuro fra le robusta mura del suo palazzotto,
ritroviamo il tiramelo che, dopo aver curato in tutti i suoi
particolari il piano per soddisfare il suo puntiglio, attende
con animo crucciato, in preda all’ansia, spaventato
della sua stessa audacia, il ritorno dei bravi dalla spedizione.
Appreso dal Griso, in un colloquio agitato, il fallimento
di quella, impartisce ordini, perché si recuperi la
bussola, si faccia una ambasciata intimidatoria al console
del villaggio, si indaghi sugli strani avvenimenti di quella
notte. Segue il dialogo con il cugino Attilio, che gli promette
il suo interessamento presso il conte zio affinché
padre Cristofaro sia allontanato da Pescarenico. Il Griso
recatosi di buon mattino al paese apprende che i promessi
sono fuggiti, che Lucia ha trovato ricovero in un convento
di Monza. Al suo ritorno, don Rodrigo gli ordina di recarsi
in quella città per studiare l’opportunità
di un nuovo colpo. Le ultime pagine del capitolo sono per
Renzo. In cammino verso la città tumultuosa, ha l’animo
pieno di mestizia per la repentina separazione da Lucia, per
aver dovuto abbandonare il paese, la casa. Solo il paesaggio
attirando il suo sguardo, lo distrae di tanto in tanto dai
tristi pensieri. Giunto a Milano, Renzo si trova di fronte
ai primi segni dell’imminente rivolta, senza per altro
sapersene rendere conto. La scena ci fa sorridere: la meraviglia
del giovane di fronte ad un sacrilegio, per quei pani e per
quella farina gettati per terra, la sua esitazione nel raccoglierli,
la lentezza sospettosa dell’atto, il ragionamento ad
alta voce ed infine la fame che prevale su ogni considerazione.
Tra queste righe possiamo leggere la riprovazione di un animo
profondamente cristiano per l’indegno sciupo di farina
e di pane, simbolo della Provvidenza. Apprende poi dopo, che
tale abbondanza non è altro che un momento che si fa
spazio nella rivolta per prendere fiato. L’ordinamento
sociale, la vita economica del paese erano ridotti in tale
miserevole stato, per incapacità e cattiva volontà
dei governatori e l’uomo onesto riconosceva necessario
un mutamento, comunque avvenisse, anche con un atto di violenza.
Vedremo che questo convincimento, frutto di un sordo rancore
per tante ingiustizie, per tanti torti subiti, farà
sì che Renzo, prenda parte ai tumulti: vuole anch’egli
operare per una società migliore, per vivere fondato
sulla giustizia.
CAPITOLO XII
Ha qui inizio un altro episodio che il Manzoni tratta con
la sua abituale precisione, con il consueto movimento drammatico
di fatti, di gesti, di figure e passione e senza risparmio
di commenti di carattere morale. All’umile, singolare
vicenda dei due promessi, alla semplice e monotona vita di
un piccolo centro di campagna, si innesta e si intreccia la
vita di tutto un popolo nella sua pluralità, avvenimenti
di grande vastità e importanza storica, che travolgeranno
con il loro “vortice”, umili, potenti, i quali
sol nel pericolo si sentiranno pari agli altri fratelli. Di
questi sconvolgimenti la divina Provvidenza si servirà
per portare ad effetto i suoi disegni. Protagonista di questo
capitolo è quindi la carestia. Il Manzoni aveva avuto
modo di accennare alla disastrosa, causata dallo scarso raccolto
dell’annata, adesso ne analizza le cause e le conseguenze
sulla psicologia della fola, con un’acutezza degna di
un trattato di economia. La guerra per il ducato di Mantova,
i saccheggi, la contrarietà delle stagioni, il disinteresse
del governatore don Gonzalo che, tutto ingolfato nelle operazioni
militari, aveva delegato ogni potere a Ferrer, l’incompetenza
di questi,avevano reso disastrosa la situazione alimentare
del milanese. Imbestialito per la fame, il popolo si ribella,
assalta il forno delle grucce, si impadronisce, facendone
grande sperpero, della farina e del pane, poi, non contento
si dirige verso la casa del vicario di provvisione per fare
giustizia sommaria. In mezzo a questi burrascosi avvenimenti
viene a trovarsi il nostro Renzo, dapprima come spettatore,
poi, da protagonista.
CAPITOLO XIII
Abbiamo lasciato Renzo in mezzo a burrascosi avvenimenti come
innocente spettatore, adesso lo ritroviamo da protagonista
in mezzo alla folla che giunge alla casa del vicario, mentre
questi, preoccupato per le vicende accadute, stava facendo
un chilo agro e stentato. La descrizione del vicario è
sottolineata da un sorriso tra il malizioso e il compassionevole.
E’ il ritratto di un uomo mediocre e pauroso, sopraffatto
da avvenimenti più grandi di lui, che ora gli disturbano
la digestione, ma che ben presto gli procureranno guai tanto
spiacevoli quanto inaspettati. E ciò è provato
dalla sua reazione in questa situazione, quel turarsi le orecchie
per non sentire il rumore, quel protendere le mani, quasi
a sostenere la porta, sono gesti di un fanciullo, non di uomo,
tanto meno poi di un uomo vestito di pubblici poteri. Ben
presto dagli urti e dalle imprecazioni si passa all’azione:
cento mani picchiano contro la porta nel tentativo di abbatterla,
il vicario corre a nascondersi tutto tremante in soffitta.
Tra la folla si distinguono delle voci che invocano la morte
del vicario, tra questi ve n’è uno proprio accanto
a Renzo: un vecchio mal vissuto e sanguinario, da cui occhi
infossati, dalle canizie vituperose traspare un che di lugubre
e truculento. C’è dell’atroce in quel sogghigno,
nel gesto con cui sono agitati e mostrati gli arnesi del delitto.
A questo punto interviene Renzo a difesa di un comportamento
più cristiano da parte di coloro che aspettano una
grazia. Ma come sempre quando si prendono le difese, anche
e giuste, della vittima designata dal furore comune si rischia
di passare per dei fautori. L’accusa scagliata contro
Renzo, passando bocca in bocca, raggiunge dimensioni impensate.
In aiuto del povero Renzo, giunge una scala che, accentrando
su di se l’attenzione, diventa di colpo la protagonista
della scena drammatica. Proprio mentre la situazione si fa
più critica, arriva Ferrer, il quale, con il pretesto
di portare in prigione il vicario, vuole sottrarlo alla ferocia
popolare e la folla è tanto ingenua quanto crudele.
Il pensiero che Ferrer sia venuto per aiutare il vicario,
ma amante della legalità si adopera con grande zelo
perché la carrozza del gran cancelliere possa attraversare
la folla e arrivare davanti al portone. La cosa riesce. Ferrer
entra in casa e ne esce dopo con il vicario terrorizzato attaccato
alla sua toga; salgono ambedue in carrozza e riescono ad allontanarsi.
Sebbene personaggio secondario, privo, a differenza di altri
personaggi manzoniani di una sua storia interna, il gran cavaliere
spagnolo, che è stato la causa principale della carestia
e dei tumulti, acquista rilievo e validità artistica
in queste pagine, in cui lo troviamo al centro degli avvenimenti
da lui provocati. Nella scena che ce la presenta quando va
in carrozza a salvare il vicario di provvisione, mentre questi
sta per cadere nelle mani del popolo eccitato, risulta tutto
il suo carattere. Creatura, tutta furbizia e diplomazia, che
sa sfruttare la sua popolarità. C’è nel
personaggio di Ferrer il peso di un’evidentissima bivalenza:
figura autonoma, inventata con estrema acutezza e, insieme,
pretesto per arricchire il contorno di nuovi e più
complessi riferimenti umani e psicologici.
CAPITOLO XIV
Nelle prime pagine di questo capitolo, il Manzoni, con fine
intuito e psicologico, disegna varie figure di birboni e di
istigatori. Rimasti, dopo essersi tanto adoperati, delusi
perché il tumulto si è risolto senza spargimento
di sangue, non sanno e non vogliono rassegnarsi, tentano ancora
sino a quando, sopravvenuti i soldati, vedendosi in troppo
pochi per fare qualcosa, se ne vanno, o dritti senza pensarci
un momento, perché la paura è grande, oppure,
più furbi, con tutta calma, facendo finta di nulla.
L’analisi manzoniana sottolinea gli umori vari dei popolani,
si susseguono, si infittiscono i discorsi che traducono l’intimo
sentire, il carattere di ciascuno; del generoso, di colui
che si autoloda compiaciuto di se stesso, della sua azione
che travisa gonfiandola, del semplicione, dl furbo, che intuisce
come terminano certe cose e finisce per cogliere nel segno
dell’insoddisfatto. L’attenzione del Manzoni torna
poi ad appuntarsi su Renzo per presentarlo, in un atteggiamento
del tutto nuovo, fonte di situazioni imprevedibili, trattate
con raffinato senso dell’umorismo. Dopo aver esposto
le proprie idee sulla rivolta, sulla giustizia,ecc.., Renzo,
scambiato per uno dei capi della rivolta, cade tra le grinfie
di uno sbirro travestito, il quale, approfittando della sua
scarsa conoscenza della città, vorrebbe portarlo caldo
caldo in prigione, con il pretesto di trovargli un alloggio
per la notte. Per fortuna preferisce entrare nella prima taverna
che incontra, sempre seguito però dal suo pericoloso
accompagnatore. Gli avvenimenti così densi e vari,
che il giovane non era abituato a vivere nella sua semplice
e modesta giornata di contadino, producono nel suo animo un’insolita
agitazione, creano uno stato d’animo d’esaltazione,
di ebbrezza. Tornando un po’ a ritroso nelle pagine
del capitolo, ricordiamo Renzo, mentre osserva la folla in
tumulto ripercorre con la mente la sua vicenda, la tragedia
di un’intera popolazione, diventa la sua personale tragedia;
rivede il suo piccolo, chiuso mondo, ripensa a don Abbondio,
a don Rodrigo, al dottor Azzecca-garbugli, ai bravi, il core
gli balza in petto al ricordo di tutte le ingiustizie patite,
che lo hanno così improvvisamente e dolorosamente allontanato
dalla sua Lucia. Nell’atto di forza, con , il quale
la rivolta si esprime, il giovane intravede la possibilità
di tagliare il male alla radice, di cambiare il sistema perché
cambino gli uomini, ponendo così fine ad ogni tipo
di prepotenza, instaurando un mondo migliore, un mondo un
po’ più da cristiani, com’egli lo definisce
nella sua ingenuità, e semplicità di montanaro.
Allora da spettatore diviene attore: aiuta Ferrer, interviene
nei discorsi della folla con l’ansia di chi soffre,
l’ardore di che spera e crede con animo puro. Ed è
per questa sua fervente partecipazione che viene scambiato
per uno dei capi della rivolta e condotto nell’osteria
dove il suo accompagnatore traditore suscita grande preoccupazione
nell’oste. Dopo aver bevuto diversi bicchieri di un
vinello traditore, Renzo si ubriaca ed imbastisce un gustoso
dialogo con gli altri avventori. Non ragiona e quando vuol
farlo sragiona, ripete i medesimi concetti con parlare confuso,
da balbuziente. I movimenti sono pesanti e incontrollati,
si immalinconisce, rimane assorto, chiuso in un silenzio tragico.
A questo punto il pensiero, tra i fiumi di vino e l’innalzare
dei ricordi, gli è corso a Lucia, e la commozione è
naturale; ma l’ebbrezza ne deforma e ne fa degenerare
la muta manifestazione, così da renderla svenevole
e sguaiata. Ad approfittare della situazione giunge lo sbirro
che coglie l’occasione per strappargli nome e cognome.
CAPITOLO XV
E’ questo il capitolo della furberia: furbo l’oste
nel proteggere i propri interessi, furbo il notaio criminale
nel suo tentativo di cavarsi d’impiccio e di mettere
in trappola Renzo. Alla fine chi esce vincitore è proprio
il meno esperto, il più ingenuo dei tre. Dopo aver
portato a letto Renzo con gran fatica, l’oste lascia
la moglie a cura degli affari, non senza prima averle dato
tutti i suggerimenti e i consigli sul modo di comportarsi
con gli avventori. Il discorso dell’oste alla moglie
è frutto di amara esperienza, di scetticismo, di una
particolare, amara filosofia della vita, che egli si è
formato con gli anni. La dominazione straniera, i capovolgimenti
politici hanno tolto all’oste ogni coraggio di affermare
le proprie idee, di lottare per la verità e per la
giustizia. Quel che conta per lui è il denaro, il resto
non sono che << corbellerie >>, dinanzi alle quali,
chiuso nel suo egoismo, rimane impassibile, indifferente.
Si avvia un poi difilato al palazzo di giustizia, ripensando
al guaio che gli è capitato proprio quando meno se
lo aspettava, e in un giorno come quello. C’è
nella figura dell’oste preoccupato, il rimpianto, un
poco astioso, che tutta la sua politica e il suo giudizio
non siano valsi a fargli finire in pace quella maledetta giornata,
e d’altro lato affiora sempre una certa compassione
per il povero giovine e una viva irritazione per quel malaugurato
avvenimento. Al notaio criminale denuncia il rifiuto a declinare
le generalità, in un colloquio dalle battute gustose,
in cui alle intimidazioni e alle insinuazioni dell’uomo
ella legge contrappone la sagacia, l’ironia, il coraggio
dell’uomo del popolo che difende la propria onestà.
Il tono tra serio, stizzoso, burlesco e umoristico dell’oste,
dà a tutto il discorso un carattere e un sapore inconfondibile;l’oste
rivela la sua anima, certo non proprio eccelsa, né
troppo generosa, ma nemmeno del tutto egoistica e, in fondo,
non malvagia. Al mattino Renzo ha la sgradita sorpresa d’essere
svegliato dai birri. S’ingaggia una battaglia d’astuzie
tra il notaio, il quale avendo fiutato il vento infido, vorrebbe
portare in prigione il suo uomo senza far troppo chiasso e
per questo lo prende con le buone e Renzo che, compresa la
particolare situazione, con intraprendenza e decisione, non
solo si fa restituire la lettera di fra Cristofaro e il denaro,
ma giunge sino ad insultare i birri, i quali non reagiscono
perché trattenuti dalle eloquenti occhiate del notaio.
Ammanettato di sorpresa il giovane, si avviano. L’astuzia
nascosta dalle lusinghe sarebbe andata bene per il Renzo ingenuo
che abbiamo conosciuto fin qui; adesso il pericolo ha risvegliato
in lui la sopita furbizia contadina e il notaio rimarrà
battuto e deluso. Lungo la strada Renzo infatti spia l’occasione
buona per fuggire. Quando si accorge che la folla, ancora
in fermento per gli avvenimenti del giorno precedente, s’è
infittita, si rivolge ad essa: questa si stringe minacciosa
intorno agli sbirri e al notaio, i quali, sentendosi in pericolo,
lasciano i manichini che stringevano i polsi di Renzo; il
giovane può così rapidamente allontanarsi.
CAPITOLO XVI
Renzo sfugge agli sbirri e , rifiutando l'ipotesi di chiedere
asilo in un convento, corre via cercando di uscire dalla città
e dallo stato. non sapendo orientarsi nella città,
Renzo, dopo aver esaminato attentamente alcuni passanti, chiede
informazioni ad uno di essi che gli ispira fiducia. Il giovane
attraversa la città e, superando con indifferenza un
presidio di soldati, esce dalle mura diretto a Bergamo. Renzo
si allontana da Milano, ma , per il timore di percorrere strade
le strade principali, e per il desiderio di non attirare su
di sé sospetti chiedendo informazioni, sbaglia più
volte direzione. Durante il suo cammino egli ripensa ai fatti
del giorno precedente ed esamina la sua situazione. Giunto
ad un'osteria isolata, il giovane pranza. Con uno stratagemma,
egli riesce poi a farsi indicare dalla vecchia ostessa la
strada per il confine. Verso sera, Renzo arriva nel paese
di Gorgonzola, vicino al confine, e qui cena in un'osteria.
Cerca, senza esito, di ottenere dall'oste delle indicazioni
sul percorso da seguire per attraversare l'Adda, e passare
nella Repubblica veneta. Viene poi avvicinato da un cliente
che gli chiede se egli venga da Milano e se abbia informazioni
sulla rivolta: Renzo fornisce risposte evasive. Al gruppo
degli avventori si aggiunge poi un mercante milanese. Si tratta
di un conservatore, metodico e nemico di ogni disordine, che
dà una propria personale versione degli avvenimenti.
In particolare, egli dice che i capi della rivolta sono stati
tutti arrestati, tranne uno che, fermato in un'osteria, è
riuscito a fuggire. Il riferimento alla vicenda di Renzo è
evidente. Temendo di cadere nuovamente nelle mani della giustizia,
Renzo lascia l'osteria e va, quasi istintivamente, verso l'Adda.
CAPITOLO XVII
Uscito dall'osteria di Gorgonzola, Renzo prosegue il suo cammino
nell'oscurità, lungo le strade che, secondo il suo
senso dell'orientamento, dovrebbero condurlo all'Adda. Durante
il tragitto, i suoi pensieri vanno al mercante e al suo resoconto
distorto e calunnioso. Dopo aver oltrepassato alcuni paesi
ed aver scartato l'ipotesi di chiedere ospitalità,
Renzo si inoltra in una zona non coltivata e poi in un bosco.
Qui viene colto da uno oscuro timore, ma, proprio quando sta
per tornare sui suoi passi, sente il rumore dell'Adda e si
precipita verso il fiume. Non potendo attraversare il fiume,
né potendo passare la notte all'aperto, a causa del
freddo, Renzo si rifugia in una capanna abbandonata. Dopo
aver recitato le preghiere della sera, il giovane tenta di
addormentarsi ma alla sua mente si affacciano ricordi dolorosi.
Verso le sei del mattino successivo, sullo sfondo di una magnifica
aurora, riprende il cammino verso l'Adda. Un pescatore traghetta
Renzo sulla sponda bergamasca dell'Adda, di qui in poi il
giovane prosegue a piedi verso il paese del cugino. Renzo
pranza all'osteria; terminato il pasta, dona le ultime monete
che gli sono rimaste ad una famiglia ridotta, dalla fame,
a mendicare. Giunto nel paese di Bortolo, Renzo individua
immediatamente il filatoio e lì trova il cugino, il
quale lo accoglie festosamente, dichiarandosi disposto ad
aiutarlo,sebbene i tempi non siano dei più propizi.
I due cugini si informano reciprocamente sulla rispettiva
situazione e sulle vicende politiche dei propri paesi. Dopo
essere stato avvertito dell'uso bergamasco di chiamare "baggiani"
i milanesi , Renzo viene presentato al padrone del filatoio
e assunto come lavorante.
CAPITOLO XVIII
La giustizia compie una perquisizione a casa di Renzo e interroga
i suoi compaesani. Don Rodrigo, intanto si compiace dei provvedimenti
contro Renzo e dal conte Attilio riceve nuovi incoraggiamenti
e stimoli a proseguire nel suo proposito. Ma il suo compiacimento
è turbato dalle notizie su Agnese e Lucia, riferitegli
dal Griso. egli è dunque sul punto di abbandonare l'impresa
poiché il monastero e la presenza in esso della potente
Gertrude costituiscono per lui un ostacolo insormontabile.
Prevale però il timore dell'onta per la sconfitta,
e Don Rodrigo decide così di tentare nuovamente il
rapimento di Lucia, avvalendosi dell'aiuto di un nobile tristemente
noto per le sue imprese criminali: l'Innominato. Intanto Lucia
e Agnese vengono informate dalla fattoressa che Renzo è
ricercato per i fatti del tumulto, mentre un pescatore, incaricato
de fra Cristoforo, nel confermare la notizia, aggiunge che
il giovane ha trovato riparo nel Bergamasco. Le due donne
continuano la loro vita nel monastero, confortate dalle notizie
rassicuranti su Renzo, che fra Cristoforo invia loro tramite
i suoi messaggeri. Lucia è entrata in maggior confidenza
con Gertrude e passa con lei molto del suo tempo. Non avendo
più ricevuto notizie da fra Cristoforo, Agnese decide
di abbandonare il convento e di passare da Pescarenico prima
di tornare a casa. nel suo viaggio è aiutata dal pescatore
che aveva portato le prime notizie certe di Renzo. Giunta
a Pescarenico, Agnese apprende da fra Galdino che padre Cristoforo
è stato trasferito a Rimini; la donna torna così
al proprio paese in preda allo sconforto. qualche giorno prima
il conte Attilio si era rivolto ad uno zio, membro del Consiglio
segreto, perché questi, che è in confidenza
con il padre provinciale dei cappuccini,intervenga per far
trasferire padre Cristoforo. Per convincerlo, Attilio espone
una propria versione dei fatti, menzognera e calunniosa.
CAPITOLO XIX
Il conte zio organizza un banchetto al quale vengono invitati
alcuni illustri esponenti della nobiltà milanese, alcuni
parassiti sempre in accordo con il padrone di casa, e il padre
provinciale dei cappuccini. Durante il pranzo, il conte zio
guida la conversazione sul proprio soggiorno madrileno e sui
privilegi accordatigli in quell'occasione; mentre il padre
provinciale parla della curia romana e del prestigio dei cappuccini.
Terminato il pranzo, il conte zio, parlando con il padre provinciale,
insinua che fra Cristoforo abbia appoggiato Renzo nell'azione
rivoltosa del tumulto milanese. il religioso assicura che
prenderà informazioni, e il conte è costretto
a parlare anche del contrasto tra il frate e Don Rodrigo.
Tra velate minacce e richiami al prestigio della famiglia,
il nobile suggerisce di trasferire fra Cristoforo. Dopo aver
accennato a una debole difesa del frate e ad una più
accesa difesa del prestigio dell'ordine, il padre provinciale
giunge ad un compromesso: trasferirà Cristoforo in
cambio di una tangibile prova d'amicizia verso il convento
di Pescarenico, da parte di don Rodrigo. Al convento di Pescarenico,
giunge, una sera, l'ordine di trasferimento per padre Cristoforo,
ma il padre guardiano lo comunicherà all'interessato
solo il giorno successivo. Appresa la volontà del padre
provinciale, fra Cristoforo parte per Rimini accompagnato
da un altro cappuccino e profondamente angosciato per non
poter più aiutare i suoi protetti. Don Rodrigo, sempre
più intestardito nel suo scopo, pensa di chiedere l'aiuto
dell'Innominato. Qui l'autore narra brevemente la storia dell'Innominato,
le sue azioni violente, il suo atteggiamento verso la legge.
Viene descritta la sua dimora, posta sul confine tra il Milanese
e la Repubblica veneta, in modo da poter trovare rifugio nell'uno
o nell'altro stato. Dopo molti ripensamenti, dovuti anche
alle differenze che vi sono tra lui e l'Innominato, don Rodrigo
decide di richiedere il suo aiuto e di andare al suo castello
con un seguito di bravi.
CAPITOLO XX
Il castello dove l'Innominato conduce la sua vita solitaria
è posto in un luogo elevato, selvaggio e aspro dove
solo gli amici e gli uomini dell'Innominato osano avventurarsi.
Al castello si accede attraverso una ripida strada in salita,
all'inizio della quale, quasi fosse un posto di guardia, si
trova la taverna della Malanotte.Qui giunge don Rodrigo e
viene accolto da un ragazzaccio armato di tutto punto. Dopo
aver deposto le armi, il signorotto viene accompagnato al
castello dai bravi dell'Innominato, mentre i suoi accompagnatori,
ad eccezione del Griso, devono rimanere alla taverna. L'Innominato
è un uomo sulla sessantina, dalla forza straordinaria,
don Rodrigo gli chiede di far rapire Lucia e, seppure a malincuore,
l'Innominato accetta, sapendo di poter contare sull'aiuto
di Egidio, l'amante di Gertrude. Licenziato don Rodrigo, l'Innominato
ripensa ai suoi crimini a appare terrorizzato dall'idea della
morte e del giudizio divino. Anche il pensiero del rapimento
di Lucia lo turba; ma per non ascoltare la voce della propria
coscienza, egli invia subito il Nibbio, il capo dei suoi bravi,
da Egidio per predisporre il piano criminoso. Convinta da
Egidio a farsi complice del rapimento, Gertrude, nonostante
le resistenze della ragazza, riesce ad inviare Lucia fuori
dal convento con il pretesto di portare un messaggio al padre
guardiano dei cappuccini. Giunta in una strada solitaria,
Lucia viene avvicinata con l'inganno dai bravi dell'Innominato
e caricata a forza su una carrozza. Durante il viaggio verso
il castello dell'Innominato, il Nibbio, pur bloccando con
la forza i suoi tentativi di fuga, cerca di rassicurare la
ragazza. Lucia prega i suoi rapitori che la lascino andare,
vista poi l'inutilità delle sue richieste, rivolge
le sue preghiere a Dio. Nel vedere la carrozza che si avvicina
alla Malanotte, l'Innominato è tentato di sbarazzarsi
rapidamente di Lucia e di farla condurre direttamente da don
Rodrigo. Ma la sua coscienza gli consiglia di tenere ancora
la fanciulla presso di sé.Il nobile manda dunque a
chiamare una vecchia serva e le ordCAPITOLO XXI
Lucia viene caricata su una portantina, e, assieme alla vecchia
incaricata dall'Innominato di farle coraggio, viene trasportata
al castello. Le preghiere di Lucia non commuovono la donna,
ma le portano alla mente una religiosità dimenticata.
Il Nibbio intanto corre dall'Innominato per riferirgli l'esito
della missione, e confida al suo padrone di aver provato compassione
per Lucia. Sorpreso dalle dichiarazioni del Nibbio, l'Innominato
decide di vedere di persona la fanciulla. Lucia prega il nobile
di liberarla, ricordandogli il perdono divino quale compenso
per gli atti di misericordia. L'Innominato, sempre più
turbato dalle preghiere della giovane, lascia intuire che
la libererà l'indomani. Lucia rimane sola con la vecchia,
la quale, tra lo stizzito e il terrorizzato, cerca, in modo
un pò goffo di farle coraggio. la fanciulla però
rifiuta il cibo e il letto preparati per lei e resta accucciata
a terra. Lucia rimane in una condizione di dormiveglia e nella
sua mente si affollano le immagini terribili della giornata.
Risvegliatasi poi completamente, inizia a pregare e, in cambio
della liberazione da quella prigione, fa voto di castità
alla Madonna. Infine, rasserenata, si addormenta all'alba.
Frattanto l'Innominato, dopo il colloquio con Lucia, non riesce
a liberarsi dall'immagine della fanciulla. Messosi a letto,
egli cerca di recuperare il temperamento di un tempo, ma ogni
pensiero di imprese criminose gli riesce sgradevole; il futuro
gli si presenta privo di interesse e il passato diventa una
fonte inesauribile di rimorsi. Giunto ormai alla disperazione,
si appresta al suicidio, ma l'eventualità che esista
una vita eterna lo induce a desistere, il ricordo delle parole
di Lucia sul perdono divino riaccende però in lui la
speranza e decide che libererà la fanciulla il giorno
successivo. All'alba, l'Innominato sente un suono allegro
di campane e vede gente festosa nella valle, incuriosito,
incarica un suo bravo di verificare le ragioni di tanta animazione.
CAPITOLO XXII
Un bravo informa l’Innominato che i villaggi vicini
sono in festa per la visita del vescovo. Rimasto solo, l’Innominato
si interroga sui motivi che spingono a festeggiare l’arrivo
di quell’uomo. Poi, mosso dal desiderio di ascoltare
parole di consolazione, decide di recarsi a colloquio dal
vescovo. Prima di scendere in paese l’Innominato passa
a far visita a Lucia. Trovandola addormentata, ordina alla
vecchia di far nuovamente coraggio alla fanciulla, poiché
egli farà tutto ciò che ella vorrà. L’Innominato
giunge in paese tra lo stupore tra lo stupore e il timore
della gente, che mai lo aveva visto senza un seguito di bravi.
Fattosi indicare il luogo ove poter trovare il cardinale,
vi si reca, seminando inquietudine tra i sacerdoti lì
raccolti e nell’animo del cappellano crocifero al quale
egli chiede di poter vedere il vescovo. Comincia qui la biografia
del cardinale Federigo Borromeo. Federigo nasce da una delle
più illustri famiglie lombarde, della quale fa parte
anche il vescovo di Milano, Carlo Borromeo, beatificato pochi
anni dopo. Fin dall’infanzia pone attenzione al rispetto
dei principi cristiani. Adolescente, Federigo sceglie la vita
consacrata e, nel collegio di Pavia, si dedica allo studio,
alla catechesi e ad opere di carità. La sua vita è
un esempio di fede e di profonda umiltà. Nominato vescovo
di Milano, egli continua, malgrado la prestigiosa carica,
la sua scelta di vivere all’insegna della povertà
e della carità. All’impegno pastorale aggiunge
quello culturale, fondando la biblioteca Ambrosiana: un’istituzione
innovativa che fa del suo fondatore un precursore dei moderni
uomini di cultura. Il carattere mite e affabile completa poi
il ritratto morale di Federigo, facendone un esempio di vita
cristiana, pur non privo di difetti sotto il profilo delle
opinioni in materia di scienza e di cultura. L’autore
completa il capitolo parlando delle opere letterarie e saggistiche
del cardinale.
CAPITOLO XXIII
Il cappellano crocifero avverte il cardinale Federigo della
visita dell’Innominato, e, nel contempo, lo invita a
non riceverlo perché si tratta di un uomo pericoloso.
Federigo invece insiste per vederlo immediatamente. Borbottando
tra sé, il cappellano introduce l’Innominato
presso il vescovo, il quale lo accoglie a braccia aperte.
Con un fare cortese e con parole amichevoli, Federigo mette
l’Innominato a proprio agio e lo induce a rivelare i
suoi turbamenti. Gli parla poi del perdono divino e a quelle
parole, l’Innominato scoppia in pianto: la sua conversione
è avvenuta e i due possono abbracciarsi. L’Innominato
racconta poi al vescovo la vicenda di Lucia e dichiara di
volerla liberare subito. Federigo manda a chiamare il cappellano,
il parroco del paese e don Abbondio, affinché si possa
organizzare la liberazione di Lucia. Il cappellano annuncia
la conversione dell’innominato ai sacerdoti riuniti,
poi chiama il parroco e don Abbondio, quest’ultimo si
fa avanti svogliatamente e dopo alcuni tentennamenti. Al parroco
del paese il cardinale ordina di trovare una donna che faccia
coraggio a Lucia durante la sua liberazione. A don Abbondio
chiede invece di accompagnare l’innominato fino al castello
per prendersi poi cura della fanciulla: il curato accampa
scuse per evitare di viaggiare con quell’uomo che lo
spaventa, ma alla fine è costretto ad eseguire gli
ordini. L’Innominato e don Abbondio si apprestano ad
iniziare il viaggio assieme al lettighiero e alla donna incaricata
dal parroco. Nell’attraversare la piazza gremita di
gente l’Innominato è guardato con ammirazione
dalla folla che ha già saputo della sua conversione.
Usciti dall’abitato, don Abbondio, ancora dubbioso circa
il reale pentimento dell’Innominato, comincia un lungo
soliloquio, nel quale se la prende con coloro che hanno minacciato
il suo quieto vivere. Accusa don Rodrigo di cercare sempre
guai e di coinvolgervi anche gli altri. All’Innominato
rimprovera il troppo clamore suscitato dalla sua conversione;
e al cardinale, la precipitazione nel fidarsi ?????????????????>?
di quell’uomo e, soprattutto, nell’affidargli
il destino di un sacerdote. L’Innominato intanto appare
turbato dai rimorsi e dalle preoccupazioni per la nuova vita.
Il gruppo oltrepassa la Malanotte e giunge nei pressi del
castello, dove i bravi guardano con rispetto e perplessità
il loro signore. Una volta arrivati sulla spianata antistante
il castello, l’Innominato prega la donna di far subito
coraggio a Lucia; poi l’accompagna, assieme a don Abbondio,
nella stanza dove è rinchiusa la ragazza.
CAPITOLO XXIV
Lucia sente l’Innominato bussare alla porta e, subito
dopo, vede entrare nella stanza una donna e don Abbondio;
la fanciulla, sbalordita, è rincuorata dalle buone
parole della donna e dalle rassicurazioni del curato. Nell’uscire,
Lucia incontra poi l’Innominato e, dopo un primo moto
di paura, trova la forza per ringraziarlo. Lucia e la donna
salgono infine sulla lettiga e il gruppo si avvia verso il
villaggio. Sulla lettiga, la donna continua a rassicurare
Lucia e la informa sull’identità dell’Innominato,
a quella rivelazione la ragazza ha un nuovo sussulto e grida
al miracolo. Intanto don Abbondio è colto da nuove
paure: teme che la mula che sta cavalcando lo getti nel precipizio,
che i bravi dell’Innominato lo “martirizzino”,
e che don Rodrigo possa incolparlo del fallimento dei suoi
piani. Il curato, sempre parlando con se stesso, se la prende
dunque con il vescovo, infine stabilisce di affidare alle
chiacchiere di Perpetua il compito di riferire a don Rodrigo
la propria estraneità ai fatti. Giunto in paese, si
avvia poi verso la sua parrocchia senza neppure salutare il
cardinale. Appena arrivata a casa, la donna che è la
moglie del sarto del paese, fa accomodare Lucia in cucina
e incomincia a preparare il pranzo. La fanciulla intanto,
ripensando al voto di castità pronunciato la notte
precedente, si pente di ciò che ha fatto, ma subito
dopo rinnega quel pentimento momentaneo. Nella casa fanno
il loro ingresso il sarto e i figli; l’uomo, un popolano
amante della lettura, parla diffusamente della predica del
cardinale e dell’obbligo alla carità. Poi, per
mettere in pratica quelle parole, fa portare da una delle
figlie,del cibo a una famiglia povera del vicinato. Intanto
Agnese, condotta verso la casa del sarto, incontra don Abbondio
che le raccomanda di tacere a proposito del mancato matrimonio;
arrivata a destinazione, Agnese riabbraccia la figlia e le
due donne possono scambiarsi notizie sugli ultimi avvenimenti.
Agnese e Lucia ricevono poi la visita del vescovo e Agnese
svela i particolari della vicenda, mettendo l’accento
sulle colpe di don Abbondio e omettendo ogni riferimento al
matrimonio di sorpresa. Ma Lucia, per amore di verità,
rivela anche quell’aspetto. Al termine del colloquio,
Federigo sene va promettendo di cercare notizie di Renzo.
Parlando poi con il parroco, Federigo decide che, per ricompensare
il sarto, pagherà i debiti che gli abitanti del villaggio
hanno contratto con lui. Rientrato al castello, l’Innominato
convoca i suoi bravi e comunica loro la sua conversione dando
nuove disposizioni affinché nei suoi territori non
si commettano più violenze e iniquità. I bravi
accolgono il cambiamento con atteggiamenti diversi, ma nessuno
osa replicare. Infine, dopo aver ritrovato la forza e le parole
per pregare, l’Innominato si addormenta.
CAPITOLO XXV
Nel paesello di Renzo e Lucia, giunge la notizia del rapimento
e della successiva liberazione, da parte dell’Innominato,
di Lucia. All’udire il racconto di quei fatti, la gente
trova il coraggio per manifestare il suo odio verso don Rodrigo,
il potestà, Azzeccagarbugli e tutti gli altri amici
del signorotto. Il cardinale Federigo annuncia una visita
al paesello e don Rodrigo, per non dovergli rispondere del
rapimento di Lucia, parte alla volta di Milano accompagnato
dal Griso e dagli altri bravi. Gli abitanti del villaggio
di Renzo e Lucia accolgono festosamente il vescovo in visita;
solo don Abbondio, infastidito da tutta quell’animazione
e preoccupato per i possibili rimproveri di Federigo, non
condivide la gioia generale. Dopo un primo colloquio tra il
cardinale e il curato, viene inviata una lettiga alla casa
del sarto per riportare Agnese e Lucia al paese, onde discutere
con loro di una futura sistemazione. Durante la loro permanenza
presso la casa del sarto, Agnese e Lucia ritrovano una certa
serenità, sebbene i discorsi su Renzo restino molto
tristi. Lucia rimane sempre al riparo da sguardi indiscreti,
ma, cedendo alle insistenze dell’aristocratica donna
Prassede, è costretta a recarsi nella villa di quest’ultima
per un incontro. Donna Prassede, incuriosita dalla vicenda
di Lucia, offre ospitalità e riparo alla giovane. L’intento
però della nobildonna non è però solo
quello di proteggere la ragazza, ma anche quello di indurla
a dimenticare quel Renzo che, secondo donna Prassede è
un poco di buono. Scopriamo così che donna Prassede
è una superficiale che esercita la carità senza
realmente volere il bene del prossimo. Ottenuto l’assenso
da parte di Lucia, la nobildonna fa redigere dal marito, don
Ferrante, una lettera indirizzata al vescovo, nella quale
si comunica la soluzione adottata per la protezione di Lucia.
Tornate al paese, Lucia e Agnese incontrano immediatamente
il vescovo, il quale, letta la missiva di donna Prassede,
accetta quella soluzione. Uscite dalla canonica le due donne
vengono accolte con gioia dai compaesani. Inizia un nuovo
colloquio tra don Abbondio e Federigo durante il quale quest’ultimo
chiede al curato spiegazioni del rifiuto di celebrare il matrimonio.
Don Abbondio cerca di mentire, di eludere la domanda, ma alla
fine rivela quasi tutto. Il vescovo rimprovera duramente don
Abbondio per aver anteposto la paura per la propria vita ai
doveri sacerdotali, ma il parroco sembra incapace di comprendere
il vero significato delle parole di Federigo.
CAPITOLO XXVI
Continua il dialogo tra don Abbondio e il cardinale, Federigo
prosegue nei suoi rimproveri, don Abbondio trova però,
in due occasioni, il coraggio di replicare in modo irriguardoso.
Alla fine però, il curato è indotto, dalle parole
del vescovo, a ripensare criticamente alle proprie azioni.
Donna Prassede, dopo aver riverito il cardinale, prende con
sé Lucia, la quale dice per la seconda volta addio
alla madre e al proprio paese. Il cardinale consegna ad Agnese
una somma di denaro inviatale dall’Innominato, la donna
accoglie il dono con gioia, ma anche con grande agitazione.
Agnese si reca presso la villa di donna Prassede per parlare
con la figlia prima che questa parta per Milano. La madre
comunica alla figlia la notizia del dono ricevuto e le parla
di nuovi progetti di trasferimento assieme a Renzo. Lucia
si trova così costretta a confessare la questione del
voto di castità; le due donne rimangono incerte su
quello che si dovrà fare e convengono solo di inviare
a Renzo del danaro una volta avute sue notizie. Al termine
del colloquio esse si separano con grande tristezza. Tanto
Agnese quanto il cardinale cercano di ottenere notizie di
Renzo, ma quelle che ricevono sono vaghe e contraddittorie.
A questo punto l’autore torna indietro di qualche tempo
per spiegare il motivo di quelle notizie contraddittorie.
Saputo che la giustizia ricercava Renzo anche in territorio
bergamasco, Bortolo fa trasferire il cugino in un paese limitrofo
e lo fa assumere in una filatura sotto il falso nome di Antonio
Rivolta. La vicenda al narratore l’occasione per ironizzare
sui meccanismi della burocrazia e della giustizia.
CAPITOLO XXVII
Si dà al lettore un quadro più preciso della
guerra per il ducato di Mantova e dell’assedio di Casale,
vengono descritte le cause, le alleanze e le mosse dei due
opposti schieramenti; tutto ciò offre l’occasione
per una critica antispagnola e per ripetuti attacchi al personaggio
di don Ponzalo. Emergono i motivi che hanno indotto quest’ultimo
a protestare con l’ambasciatore veneziano per il ricovero
offerto da Venezia a Renzo: nessun interesse particolare per
il giovane fuggitivo, ma piuttosto il desiderio di mostrare
aggressività verso i “nemici” veneziani.
Inizia, tra Renzo e Agnese una corrispondenza epistolare resa
difficoltosa dal fatto che i due sono analfabeti; il giovane
è costretto ad appoggiarsi ad uno scrivano del paese
dove ha trovato rifugio, mentre Agnese si avvale dell’aiuto
del cugino Alessio di Maggianico. La donna riesce ad inviare
a Renzo parte del denaro donatole dall’Innominato e
a fargli sapere del voto di Lucia, Renzo rimane sconvolto
dalla notizia, ma, per il momento, egli non può far
nulla. Lucia intanto è a Milano nella casa di donna
Prassede, la sua ospite, nell’intento di “raddrizzarle
il cervello”, continua a denigrare Renzo, ottenendo
però l’effetto di risvegliare in Lucia l’amore
per il suo promesso. L’attenzione del narratore si sposta
su don Ferrante, con molta ironia vengono descritti i suoi
libri e i suoi studi riguardanti l’astrologia, la magia,
la politica e le regole cavalleresche. Si danno al lettore
anticipazioni circa gli eventi ( guerra e peste) che contribuiranno
a tenere lontani i protagonisti della vicenda.
CAPITOLO XXVIII
L’autore descrive la situazione a Milano dopo il tumulto
di S.Martino: la falsa abbondanza, l’incetta del pane,
i tentativi di trovare cereali sostitutivi del grano, in questa
occasione il Manzoni torna a criticare i provvedimenti economici
presi dagli amministratori milanesi. Vengono descritte le
penose conseguenze della carestia: mendicanti ovunque e tra
loro anche gente operosa e persino bravi, poi dalle campagne
l’arrivo dei contadini in cerca di elemosina, per le
strade solo miseria, fame e cadaveri di persone uccise dagli
stenti. Di fronte all’inefficienza delle istituzioni,
solo l’azione caritativa del cardinale Federigo Borromeo
porta un po’ di sollievo ai poveri, ma si tratta pur
sempre di un intervento insufficiente. La situazione precipita:
anche alcune famiglie potenti perdono le loro ricchezze, mentre
cessa del tutto ogni ostentazione di lusso. Intanto, lungo
le strade si moltiplicano i morti e i mendicanti ridotti allo
stremo. Le autorità invitano i mendicanti a ricoverarsi
nel lazzaretto e vi rinchiudono con la forza quelli che non
vi si recano spontaneamente. Tra quella moltitudine costretta
in poco spazio e in precarie condizioni igieniche scoppiano
ben presto epidemie: gli amministratori annullano allora i
precedenti decreti e aprono le porte del lazzaretto. Fortunatamente,
con l’arrivo della primavera, i contadini tornano alla
campagna per la mietitura; le epidemie però continueranno
a fare vittime per lungo tempo. Si descrive rapidamente la
discesa delle truppe francesi e la sconfitta dello spagnolo
don Gonzalo nell’assedio di Casale, si accenna poi alla
discesa delle truppe imperiali attraverso la Valtellina. I
medici del tribunale di sanità avvertono le autorità
del rischio di peste connesso con il passaggio di queste truppe,
ma i loro appelli rimangono inascoltati. Intanto don Gonzalo
viene rimosso dall’incarico di governatore di Milano
e lascia la città tra lo scherno della folla. Comincia
il passaggio delle truppe imperiali attraverso il milanese,
questo esercito, composto di mercenari interessati solo al
saccheggio,provoca distruzione e violenze in tutti i territori
attraversati, seminando così il panico tra le popolazioni
locali.
CAPITOLO XXIX
Giunge l’annunzio dell’imminente discesa dei lanzichenecchi,
e don Abbondio, pur deciso a fuggire, appare disorientato
e indeciso tra la fuga sui monti,quella attraverso il lago
e quella in territorio bergamasco. Mentre Perpetua si dà
da fare per nascondere e salvare i beni di casa, il curato
chiede invano aiuto ai compaesani. Agnese, preoccupata di
salvare se stessa e il danaro ricevuto in dono, decide di
cercar rifugio presso il castello dell’Innominato e
propone quella soluzione anche a Perpetua e don Abbondio.
La prima accetta entusiasticamente, mentre il secondo avanza
dei dubbi. Infine, i tre partono alla volta del loro rifugio,
decidendo di fare tappa presso la casa del sarto. Il sarto
e la sua famiglia accolgono festosamente i visitatori e dividono
con loro i pochi viveri a disposizione. Nel corso del pranzo,
il sarto cerca di avviare con don Abbondio un discorso su
temi letterari, ma il curato è molto più interessato
a chiedere conferme circa l’effettiva conversione dell’Innominato.
Con un carro procurato dal sarto, i tre proseguono poi la
loro strada verso il castello. Viene quindi descritta la nuova
vita dell’Innominato:la sua rinuncia alle armi e ad
ogni protezione, il nuovo rispetto della gente, della giustizia
e perfino dei vecchi nemici, il disappunto degli ex complici.
Si parla infine delle disposizioni date dall’Innominato
per la difesa dai lanzichenecchi del suo castello e di tutti
coloro che vi hanno trovato rifugio.
CAPITOLO XXX
Don Abbondio, Agnese e Perpetua giungono in prossimità
del castello, vedendo il gran numero di persone che cercano
rifugio là, il curato comincia a temere che tutta quella
folla di rifugiati richiami lassù i lanzichenecchi.
Ancora più contrariato si mostra nel vedere gli uomini
armati a difesa del castello; don Abbondio sfoga il malumore
con le due donne e ne escono alcuni battibecchi. L’Innominato
riceve calorosamente i tre fuggitivi e, dopo aver chiesto
notizie di Lucia, li guida verso gli alloggiamenti a loro
destinati. Viene descritta la vita dei rifugiati al castello:
gli allarmi, le spedizioni difensive dell’Innominato
e dei suoi armati, l’organizzazione e la distribuzione
dei compiti. Si parla poi del lavoro di Agnese e di Perpetua
a servizio della comunità e dell’inattività
di don Abbondio. Al castello giungono infine notizie sul passaggio
delle truppe e dei vari condottieri. Cessato il pericolo i
fuggitivi tornano alle loro abitazioni e, ultimi, partono
anche Agnese, Perpetua e don Abbondio. Dopo essersi accomiatati
dall’Innominato e dal sarto, i tre attraversano in carrozza
la campagna e ovunque vedono la devastazione lasciata dai
lanzichenecchi. Giunti al paese, i tre trovano le loro case
saccheggiate e imbrattate; i beni di don Abbondio, sepolti
da Perpetua in giardino, sono stati rubati: ciò provoca
dei nuovi battibecchi tra i due. Perpetua scopre poi che alcuni
oggetti del curato sono stati rubati da gente del paese; don
Abbondio però si rifiuta di chiederli indietro, suscitando
le ire della governante.
CAPITOLO XXXI
Il Manzoni spiega i motivi che lo inducono ad aprire una lunga
pagina storica sulla peste: il suo scopo è di ricostruire
quell’evento, ovviando alla mancanza di sistematicità
tipica dei cronisti secenteschi. Dai paesi che circondano
Milano giungono le notizie delle prime morti. Inizialmente
la causa dei decessi non viene attribuita al contagio, ma
dopo una visita sui luoghi della malattia, il Tadino conclude
che si tratta di peste . Le autorità e in particolare
il governatore Ambrogio Spinola rimangono piuttosto indifferenti
al problema; ma anche la popolazione rifiuta l’idea
del contagio. Finalmente, il 29 novembre 1629 viene pubblicata
una grida che vieta l’ingresso in città di coloro
che provengono da paesi ove si è verificato il contagio:
ma ormai la peste è già entrata in Milano. E’
descritto ora il primo caso di peste verificatosi in Milano.
Vengono prese misure per evitare il contagio, ma la gente,
per avidità e paura, riesce ad eluderle. Il contagio
si diffonde ma in modo non rapido: la gente rimane scettica
e si scaglia contro i medici che mettono in guardia contro
la peste, giungendo ad aggredire il medico Lodovico Settala.
Si moltiplicano le morti e diviene impossibile negare l’esistenza
del morbo; invece di dichiarare la presenza della peste, si
parla però di febbri pestilenti : ciò induce
a trascurare i pericoli del contagio. I malati portati al
lazzaretto si fanno sempre più numerosi, tanto che
il lazzaretto stesso diviene ingovernabile: solo l’intervento
e il sacrificio di alcuni frati riuscirà a riportare
l’ordine in quel luogo. Si parla finalmente di peste,
ma si diffonde al tempo stesso l’idea che all’origine
del male non vi sia il contatto con gli ammalati, bensì
quello con unguenti velenosi. A rafforzare la psicosi dell’untore
concorrono due episodi di presunta unzione: l’uno verificatosi
in duomo, l’altro lungo le strade cittadine. Malgrado
il tribunale di Sanità non creda allo spargimento di
veleni, le autorità non smentiscono pubblicamente l’esistenza
delle unzioni; mentre vi è addirittura chi continua
a negare la pestilenza: l’esposizione di alcuni cadaveri
durante una processione convincerà tutti del contrario.
In conclusione, il Manzoni riflette sulle mistificazioni di
fatti e di parole che hanno condotto ad uno sviluppo così
ampio del contagio.
CAPITOLO XXXII
L’Autorità cittadina si rivolge nuovamente al
governatore Ambrogio Spinola, ma questi, impegnato nell’assedio
della città di Casale, nega ogni aiuto. Si anticipano
notizie circa l’esito della guerra: il duca di Nevers
rimane signore di Mantova, ma la città viene saccheggiata
dai lanzichenecchi. I decurioni chiedono al cardinale Federigo
di far svolgere una processione per assicurarsi la protezione
divina, ma Federigo rifiuta. Intanto crescono i sospetti delle
unzioni e si verificano episodi di linciaggio come quelli
ai danni di un vecchio e di tre francesi. Dopo nuove pressioni
dei decurioni, Federigo acconsente a far svolgere la processione
e a far venerare la reliquia di San Carlo; il lungo corteo
vede la partecipazione di popolani, di borghesi, di nobili
e di ecclesiastici. Il giorno successivo alla processione
si moltiplicano i casi di peste, ma invece di cercare la causa
nel contatto fra tanta gente, si dà la colpa agli untori.
I lazzaretti si affollano al limite della loro capacità
e cominciano a fare la loro comparsa i monatti ( il Manzoni
apre una parentesi etimologica sul termine monatto ). Solo
con l’opera dei cappuccini, dei sacerdoti, del vescovo
e delle poche persone di buona volontà, si riesce a
far fronte, fuori e dentro i lazzaretti, alla terribile situazione
sanitaria. Nella confusione generale si moltiplicano le violenze
commesse dai birri e dai monatti. Cresce anche la pazzia generale
e la psicosi dell’unzione; si sospetta di tutti, e vi
è persino chi, magari delirando, si accusa delle unzioni.
Vengono inventate storie diaboliche e fantasiose, cui persino
il Tadino sembra dare credito, i dotti chiamano poi in causa
congiunzioni di astri ed altre teorie pseudo-scientifiche.
Anche il cardinale comincia a credere agli untori, e gli scettici
sono ormai pochi e silenziosi; i magistrati cominciano a cercare
e processare i presunti untori: si eseguiranno molte condanne
atroci e ingiuste.
CAPITOLO XXXIII
Don Rodrigo, rientrando da una serata con gli amici comincia
ad avvertire uno strano malessere, ma nega che si tratti di
peste. Il Griso finge di credere alle parole del padrone,
ma sta in guardia per evitare il contagio ed approfittare
della situazione. Dopo essersi addormentato con fatica, don
Rodrigo sogna di trovarsi in una chiesa piena di appestati
e di provare, per la pressione della folla, un dolore al fianco
sinistro. Sempre in sogno, egli vede fra Cristoforo indicarlo
con mano minacciosa. Risvegliatosi, il nobile vede sparire
tutte le funeste visioni del sogno, ma non il dolore al fianco:
guardandosi quella parte egli scopre un bubbone. Sperando
di evitare il lazzaretto, don Rodrigo incarica il Griso di
avvertire un chirurgo che ha l’abitudine di tenere nascosti
gli ammalati. Il bravo parte, ma invece di ripresentarsi assieme
al chirurgo, torna accompagnato dai monatti, i quali immobilizzano
don Rodrigo, lo derubano e spartiscono il bottino col Griso.
Il traditore inizia a godersi i frutti della rapina, ma, ad
un certo punto, si ricorda di aver toccato gli abiti infetti
del padrone: la peste lo ucciderà rapidamente, mentre
don Rodrigo giungerà ancora vivo al lazzaretto. L’autore
ritorna ai primi mesi del 1630 per riassumere le vicende di
Renzo. Dopo aver lavorato sotto falso nome, Renzo, non più
ricercato dalla giustizia, torna a lavorare con Bortolo, il
quale lo dissuade dai suoi propositi di arruolarsi nell’esercito
o di ritornare al suo paese. In seguito alla diffusione del
contagio anche nel Bergamasco, Renzo si ammala di peste, ma
ne guarisce e decide di cogliere l’occasione per ritrovare
Lucia. Salutato Bortolo, che dalla peste non è stato
colpito, il giovane si avvia alla volta del suo paesello.
Ormai immunizzato contro la peste, Renzo attraversa senza
timore il paese deserto e desolato, giungendo infine al proprio
villaggio. Qui, i ricordi lo assalgono rendendogli triste
il ritorno. Procedendo nel villaggio, Renzo incontra Tonio,
il quale, ormai vinto dalla peste, non lo riconosce e si limita
a ripetere parole insensate. Il secondo incontro è
quello con don Abbondio. Il curato, che la peste ha lasciato
vivo, ma debole e dimagrito, non appare affatto lieto del
ritorno di Renzo, e cerca di indurlo a tornare nel Bergamasco.
Ottenuta qualche notizia su Agnese e sulle persone uccise
dal contagio (tra le quali c’è Perpetua), Renzo
si separa dal parroco. Proseguendo nel suo cammino, Renzo
passa accanto alla sua vigna e la vede invasa dalle piante
selvatiche, la sua casa non offrirà poi a Renzo uno
spettacolo migliore. Renzo decide di chiedere ospitalità
per la notte ad un amico, e trova quest’ultimo sano,
ma sconvolto dai lutti e dalla solitudine. Il tempo trascorso
insieme fa però ritrovare ai due giovani un po’
di serenità. Renzo, sempre alla ricerca di Lucia, si
mette nuovamente in marcia alla volta di Milano. Dopo aver
camminato tutto il giorno, il giovane trova rifugio in un
casolare nel paese di Greco, alle porte della città.
CAPITOLO XXXIV
Renzo entra in Milano corrompendo le guardie dopo che il capo
di queste è stato condotto via dai monatti. Camminando
per le vie deserte Renzo incontra finalmente un viandante
a cui chiedere informazioni, ma l’uomo lo scaccia credendolo
un untore. Procedendo, il giovane si sente chiamare da una
donna rinchiusa in casa perché sospettata di essere
contagiata, e lì dimenticata dalle autorità.
Renzo le dona due pani e si incarica di avvertire qualcuno
che possa provvedere a lei. Il giovane prosegue lungo la strada
e, dopo aver visto una macchina della tortura, assiste al
triste spettacolo dei monatti che trasportano i cadaveri su
alcuni carri; a quella vista è preso dal timore che
tra quei morti possa esservi Lucia. Scorgendo un prete che
ha appena finito di confessare un moribondo, Renzo chiede
ed ottiene indicazioni sull’ubicazione della casa di
don Ferrante, egli comunica inoltre la situazione della donna
segregata in casa, per cui il sacerdote si incarica di avvertire
chi di dovere. Renzo si inoltra nella città desolata
le cui strade sono ingombre di cadaveri e di resti infetti
di appestati; i pochi superstiti si aggirano con aria guardinga
evitando qualsiasi contatto. Gli unici rumori che risuonano
sono i tintinnii dei campanelli e le urla dei malati e dei
monatti, continuamente impegnati a trasportare infermi e cadaveri.
Solo il suono delle campane rasserena, di tanto in tanto,
gli animi. Da una delle case, Renzo vede uscire una donna
con in braccio una bambina, Cecilia, morta, ma vestita a festa.
La giovane madre dona del danaro ad un monatto e gli fa promettere
di non spogliare il cadavere della figlia; poi, adagiato il
corpicino sul carro, si ritira in casa e dalla finestra, con
un’altra figlia malata in braccio, guarda la partenza
del convoglio attendendo la morte. Dopo aver assistito ad
alcune scene di ammalati inviati al lazzaretto, Renzo giunge
finalmente alla casa di don Ferrante, dove una donna gli dice
in malo modo che Lucia è anch’essa al lazzaretto.
Renzo si sofferma esitante davanti alla casa di don Ferrante,
e una donna, ritenendo il suo atteggiamento sospetto, lo accusa
a gran voce di essere un untore. I passanti iniziano ad inseguirlo,
ma il giovane trova rifugio su un carro di cadaveri. I monatti
alla guida del carro lo accolgono con giubilo, ed assieme
alla loro turpe ma festante compagnia Renzo percorre la strada
fino al lazzaretto. Giunto davanti al lazzaretto, Renzo vede
davanti a sé la scena allucinante degli ammalati ormai
deliranti. Uno di questi ruba ai monatti un cavallo e vi monta
in groppa lanciandolo al galoppo. Tra la confusione generale
il giovane entra al lazzaretto.
CAPITOLO XXXV
Renzo entra nella sezione maschile del lazzaretto e rimane
sopraffatto dalla visione apocalittica di ammalati e di cadaveri.
Vede cappuccini e monatti, ma non chiede informazioni a nessuno.
Prosegue nella sua ricerca sotto un cielo nuvoloso e in un
calore afoso che accresca il dolore di quel luogo. Nel suo
peregrinare, Renzo giunge ad uno steccato e, al di là
di quello, vede il reparto infantile del lazzaretto, dove
alcune balie allattano e curano i piccoli orfani, aiutate
in questo da alcune capre. Girando ancora per il lazzaretto,
Renzo scorge con sorpresa fra Cristoforo, che ha ottenuto
di farsi trasferire da Rimini a Milano per curare gli appestati.
Il frate ha in volto i segni della peste,ma il suo fervore
caritativo non è diminuito. I due si siedono insieme
a mangiare e il giovane mette fra Cristoforo al corrente delle
varie vicende senza però informarlo del voto di Lucia.
Da lui, Renzo ottiene poi il permesso di visitare la sezione
femminile, ma non prima di aver guardato se la fanciulla si
trova tra i convalescenti che stanno per radunarsi e lasciare
il lazzaretto. Padre Cristoforo esorta Renzo alla rassegnazione
nel caso Lucia fosse morta, ma il giovane reagisce dando in
escandescenze e minacciando vendette contro don Rodrigo. La
replica del frate è durissima: egli chiama Renzo scellerato
e gli ricorda che solo Dio può premiare e punire. Vedendo
che il giovane è tornato a più miti consigli,
fra Cristoforo, facendo alcuni riferimenti alla propria vicenda
personale, lo invita a riflettere sul perdono cristiano, che
deve essere sincero e definitivo. Dopo che Renzo ha espresso
il suo perdono per don Rodrigo, il frate lo conduce in una
capanna dove giacciono alcuni ammalati. Uno di questi è
proprio don Rodrigo, il quale, privo di conoscenza e scosso
da violente contrazioni, è ormai moribondo; dopo una
prima istintiva reazione di rifiuto, Renzo si associa a fra
Cristoforo nella preghiera per la salvezza del nobile. Infine,
accomiatatosi dal frate e con l’animo più disposto
alla rassegnazione, Renzo riprende la ricerca di Lucia.
CAPITOLO XXXVI
Renzo, pregando per la salute di Lucia e la salvezza di don
Rodrigo, si avvia verso la cappella del lazzaretto per cercare
la fanciulla tra i convalescenti che stanno per lasciare il
campo. Padre Felice, nella sua predica ai convalescenti, raccomanda
loro l’aiuto reciproco e la sobrietà nella gioia
per la guarigione; egli chiede poi perdono ai presenti per
le mancanze sue e dei suoi confratelli. Renzo assiste alla
processione dei convalescenti che si avviano all’uscita,
ma tra essi non vede Lucia e svanisce così la speranza
di trovarla completamente guarita. Entrato nella sezione femminile,
Renzo si lega al piede un campanello da monatto per giustificare
la sua presenza lì, ma quell’espediente si rivela
subito fonte di guai e il giovane si nasconde tra due capanne
per togliersi il campanello. Durante quell’operazione
il giovane sente la voce di Lucia provenire da una delle due
capanne, entrato nella capanna, Renzo vede Lucia, ormai guarita,
nell’atto di assistere un’altra donna. Dopo i
primi istanti di emozione, la giovane si mostra dura con Renzo
e ribadisce la propria fedeltà al voto di castità.
Tra i due promessi sposi si accende una disputa, ma né
le parole di Renzo, né il riferimento al precedente
colloquio con fra Cristoforo, né la necessità
di pregare insieme per don Rodrigo, valgono a smuovere Lucia
dai suoi propositi. Il giovane si allontana dunque in cerca
del frate, mentre la fanciulla rimane con la sua compagna,
un’agiata mercantessa. Renzo fa ritorno alla capanna
di Lucia accompagnato da fra Cristoforo. Il cappuccino fa
notare alla fanciulla il tradimento della promessa di matrimonio
operato attraverso il voto alla Madonna; egli la scioglie
quindi dal voto stesso e la invita a tornare ai pensieri di
una volta, quelli del matrimonio con Renzo. Fra Cristoforo
rivolge poi ai due promessi un discorso in cui richiama agli
obblighi fondamentali degli sposi cristiani; in conclusione
egli dona a Lucia, quale ricordo e monito, il pane ricevuto
dal fratello del nobile da lui ucciso trent’ anni prima.
Dopo essersi preoccupato della sistemazione in Milano di Lucia,
e dopo aver ricevuto dalla mercantessa assicurazioni in proposito,
padre Cristoforo abbandona la capanna e porta con sé
Renzo. Per Renzo giunge quindi il momento di lasciare il lazzaretto,
e il frate si accomiata da lui con parole che lasciano intendere
la sua prossima fine e la sua speranza nella vita eterna.
CAPITOLO XXXVII
Uscito dal lazzaretto, Renzo si incammina verso il proprio
paese, mentre dal cielo cominciano a cadere le prime gocce
di pioggia; ma niente può turbare la sua gioia: durante
il cammino non fa che compiacersi della risoluzione dei problemi
e dei lieti progetti per il futuro. Incurante dell’acquazzone
e della stanchezza, il giovane prosegue il suo viaggio per
tutta la notte; il mattino successivo è in casa dell’amico
che lo aveva ospitato in precedenza. A questi, Renzo offre
il suo aiuto in alcuni lavori e racconta le sue molte peripezie.
Il giorno successivo al suo ritorno in paese, Renzo si reca
a Pasturo. Là trova Agnese in salute e la informa degli
ultimi avvenimenti, insieme decidono che, a matrimonio avvenuto,
la famiglia si trasferirà nel Bergamasco. Renzo torna
per alcuni giorni nel paese del cugino Bartolo, dopo aver
constatato che anche questi ha evitato la peste, il giovane
prende accordi per tornare al lavoro e trova la casa nella
quale trasferirsi dopo il matrimonio. Renzo e Agnese, tornati
entrambi al paese, attendono ansiosamente l’arrivo di
Lucia. La donna riprende le sue solite occupazioni, mentre
il giovane aiuta l’amico e la futura suocera a lavorare
la terra. Renzo, che ormai non teme più la giustizia,
racconta la sua storia ai compaesani, ma evita di parlare
con don Abbondio per non inimicarselo ulteriormente. Frattanto
Lucia e la mercantessa trascorrono il periodo di quarantena
in casa di quest’ultima, occupate nella realizzazione
del corredo della giovane. Dalla mercantessa, Lucia viene
informata della condanna e del pentimento di Gertrude, dai
cappuccini invece riceve la notizia della morte di fra Cristoforo.
Si parla poi della morte di donna Prassede e di don Ferrante.
Quest’ultimo, con sottili quanto errati discorsi filosofici,
ha negato fino alla fine l’esistenza del contagio; fedele
ai suoi principi, l’uomo ha rifiutato di prendere precauzioni
e si è quindi ammalato.
CAPITOLO XXXVIII
Agnese e Renzo possono finalmente rivedere Lucia, giunta in
paese assieme alla mercantessa; pur senza grandi effusioni,
i due giovani si scambiano parole piene d’affetto. Renzo
cerca di fissare una nuova data per le nozze, ma don Abondio,
che ancora teme don Rodrigo, sostiene che è più
prudente rimandare fino a che non sia stato annullato l’ordine
di cattura emesso contro il giovane. Dopo aver riferito alle
due donne l’esito del colloquio con il parroco e dopo
aver accompagnato Lucia e la mercantessa in una passeggiata,
Renzo se ne va senza dire dove. Le tre donne si recano da
don Abbondio per cercare a loro volta di smuoverlo, ma anche
i loro tentativi sono vani. Il curato cambia però opinione
quando Renzo giunge in canonica, assieme al sacrestano Ambrogio,
portando la notizia della morte certa di don Rodrigo e dell’arrivo
del suo erede. Dopo aver manifestato il suo sollievo per quella
morte, don Abbondio, colto da improvvisa allegria, si abbandona
a chiacchiere e a battute scherzose. Don Abbondio riceve la
visita del marchese erede di don Rodrigo; l’uomo si
mostra affabile e generoso, e, avendo saputo dal cardinale
Federigo della persecuzione di don Rodrigo ai danni di Renzo
e di Lucia, chiede il modo per riparare ai torti subiti dai
due giovani. Il curato gli suggerisce di acquistare i loro
beni ad un prezzo equo. Mentre si recano in casa di Lucia
per proporre l’affare, don Abbondio chiede al marchese
di far cancellare la cattura contro Renzo. Giunto a casa di
Lucia, dove si trova anche Renzo, il marchese concorda un
prezzo molto elevato per l’acquisto dei beni dei due
sposi, poi invita la compagnia a festeggiare le nozze con
un pranzo nel suo palazzotto. Celebrate finalmente le nozze,
gli sposi, con Agnese e la mercantessa, si recano nel palazzotto
per il pranzo: il marchese li accoglie affabilmente, ma non
pranza con loro. Al termine del banchetto nuziale, viene stipulato,
davanti al notaio che ha sostituito il defunto Azzecca-garbugli,
l’atto di vendita delle proprietà di Renzo, Lucia
ed Agnese. Renzo già pensa a come investire i denari
ricevuti. Dopo aver salutato affettuosamente tutte le persone
care, Agnese, Renzo e Lucia si trasferiscono al paese di Bortolo.
Qui però, cominciano a moltiplicarsi le critiche su
Lucia e Renzo entra in contrasto con la gente del luogo. Renzo
e Bortolo acquistano un filatoio in un altro paese del bergamasco
e vi si trasferiscono. Qui, invece delle critiche, Lucia riceve
complimenti; anche l’attività economica, iniziata
in modo un po’ stentato, diventa florida e per Renzo
e Lucia si prepara una vita serena allietata dalla nascita
di numerosi figli. Meditando sulle loro vicissitudini, Renzo
e Lucia comprendono di aver imparato ad accettare le disavventure
e a confidare nell’aiuto di Dio.
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