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Un lupo mannaro a Samo parte 2. Di Francesco Salerno.
…Sono rimasto in silenzio, lo sguardo fisso sulla donna, ripetendo nella mia mente quelle parole per essere sicuro di aver capito bene. Un lupo mannaro, ed era il marito. Dopo qualche momento mi voltai verso il sindaco per cercare nel suo volto il seme del dubbio e dell’incredulità, ma non ve ne trovai. Senza ulteriori indugi, entrammo in casa. La donna ci condusse dritti al piano superiore dell’abitazione dal quale provenivano bassi e cupi lamenti che mai prima di allora avevo udito in vita mia. Giunti dinnanzi alla camera da letto, la donna sospirò profondamente prima di aprire la porta e invitarci ad entrare. Qui, sdraiato sul letto, giaceva un uomo a torso e gambe nude, nonostante fosse inverno inoltrato. L’uomo, il cui nome non dirò per ovvi motivi, era madido di sudore e fissava il soffitto digrignando i denti con fare rabbioso. Mi voltai nuovamente verso il sindaco e questo mi fece segno che potevano avvicinarci senza pericolo, cosa di cui, tuttavia, dubitai molto. Nonostante ciò, mi avvicinai lentamente ai bordi del letto e subito l’uomo spostò gli occhi verso di me. In un istante, vidi i suoi occhi accendersi di pura rabbia, salvo poi chiudersi di colpo.
“E’ svenuto” annunciai con un filo di voce.
Gli misurai allora i battiti e la pressione, oltre alla temperatura corporea. Nessun valore risultò nella norma e io pregai la donna di condurlo in ospedale per farlo ricoverare. Questa, invece, mi ribatté che non sarebbe servito a niente e che, anzi, entro pochi minuti il marito si sarebbe ripreso completamente.
“Tempo di fare un caffè e sarà di nuovo in sé” mi disse con tono sicuro.
A quel punto volli saperne di più ipotizzando, tra me e me, una qualche forma di malattia mentale psico somatica. Scendemmo, dunque, in cucina e, proprio come aveva detto la donna, nemmeno il tempo di preparare il caffè che il marito ci raggiunse. Il suo aspetto era totalmente diverso da quello dell’uomo che avevo visto pochi minuti prima in camera da letto. Indossava un maglione rosso e dei pantaloni da lavoro e pareva in ottima salute. Solo gli occhi, per qualche strana ragione, avevano conservato un aspetto stanco e malaticcio.
L’uomo si accomodò alla tavola e si fece versare un caffè dalla moglie, salvo poi, con tutta la calma del mondo, salutarci amichevolmente dandoci il benvenuto nella sua casa. Io, con tutto il tatto di cui disponevo, iniziai a presentargli un quadro clonico sommario di ciò che avevo constatato di lui, facendogli intendere che il male che lo affliggeva aveva, probabilmente, origine nella sua stessa psiche. L’uomo mi ascoltò in silenzio, salvo poi farsi una grassa risata.
“Capisco dottore ciò che dice. Lei crede che io sia matto. Ma mi permetta, se vuole, di raccontarle come sono diventato ciò che sono. Poi valuterà lei se farmi rinchiudere o no.”
A quelle parole confesso che fui vinto da una curiosità morbosa e accettai di conoscere le vicende che, almeno secondo il padrone di casa, lo avevano portato ad essere un licantropo.
Continua…
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