Questo post é stato letto 27430 volte!
di Carmelo Bagnato
Il soprannome è una denominazione fortemente individuante, felice espressione dello spirito popolare, la cui attribuzione nasce da fatti ed episodi che non indicano soltanto qualità fisiche o morali, ma atteggiamenti, modi di gestire, capacità di operare, e che, ad un certo momento, rilevati, vengono accortamente ricostruiti e diffusi con enfasi e giocondità. E se l’epiteto si manifesta particolarmente e felicemente appropriato e le circostanze lo reclamano, diviene appellativo personale, ovvero, soprannome, da coinvolgere persino la famiglia, addirittura i discendenti, specialmente in ambienti socialmente chiusi, quali erano i nostri paesi aspromontani sino a qualche trentennio fa, da quando cioè, in un progressivo sbiadimento del suo uso, è quasi scomparso, a causa, prima di tutto, per il progressivo spopolamento del territorio, in particolare del paese e conseguente scomparsa delle omonomìe, quindi la scolarità e l’individuazione delle persone, non più con la citazione della paternità, ma con l’indicazione della data di nascita
Con lo spirito, il proposito, la convinzione di non ledere la sensibilità di alcuno, ma arricchire la cultura del nostro paese, con apporti che costituiscono parte integrante della sua storia, con questa pagina iniziamo la pubblicazione di alcune storielle raccontate in paese, poste all’origine dei relativi soprannomi. Trattasi ovviamente dei più recenti, (primo cinquantennio dello scorso secolo),essendo dei tanti altri, una cinquantina circa, dei quali citeremo, per quanto possibile, soltanto etimologia e significato, disperse nel tempo.
Il soprannome, comunque, in molti casi, poteva far risaltare la personalità del primigenio soggetto, sicuramente munito di particolare intelligenza, fantasia e versatilità, motivo principale di questa iniziativa.
Nel popoloso a vasto rione Spartiddi- spesso, Spartilli- del paese, c’era una famiglia come tante altre, con numerosi figli ed il capo famiglia, spesso bracciante, a stento riusciva al sostentamento, se non con sacrifici di tutti i componenti. Dal momento di questo episodio assume il soprannome di “U cristiceddu”, volendo significare che così venivano distinti persino gli eredi sino gli ultimi decenni del secolo scorso.
L’alimentazione era ridotta al necessario se non indispensabile anche per i bambini, la cui mortalità era piuttosto elevata, non sempre compensata dalla prolificità della coppia.
I cibi principali erano costituiti dai prodotti della terra delle stagioni meno fredde, molti dei quali venivano conservati in appositi recipienti e luoghi, da consumarsi nella stagione invernale piuttosto rigida.
I fichi secchi, erano lavorati e conservati in diverse maniere, da quelli cotti al forno dopo l’essiccazione al sole, distinti col nome di “cuzzuli” (In una campagna elettorale degli anni cinquanta, venivano soprannominati cuzzulari, coloro che militavano nello stesso partito di alcuni galantuomini del paese i quali solevano compensare i loro dipendenti con questi generi alimentari) ad altri, infilzati in robuste strisce di canna chiamate conocchie o formanti fantastiche figure con intrecci di fuscelli diffusi nei tratti scoscesi, pendine, delle campagne.
In una di queste numerose famiglie accadde che uno dei giovani figli si ammalò e questo stato si protrasse per bel lasso di tempo.
Era una mattinata feriale, per cui da casa, oltre i genitori, mancavano anche fratelli e sorelle; ma non la fame, latente anche per il forzato digiuno ordinato dal medico, che l’ultimo giorno di visita, aveva tranquillizzato tutti i famigliari sull’immediata guarigione del congiunto, avendo superato brillantemente lo stato di degenza.
Era quindi questo giovane, dopo aver consumato l’ennesima pastina, ancora sul letto matrimoniale, in posizione supina a osservare il soffitto e le pareti immediate soffermando lo sguardo, sul grande crocefisso appeso alla parete adiacente, come di consueto, la testata del talamo.
Ma la fame era tanta e come soddisfarla non era facile, essendo contate le fette di pane e le poche olive posate sulla tavola da consumare insieme con i fratelli a mezzogiorno al ritorno dalla scuola, poiché la minestra a base di legumi, patate, talvolta, con la pasta era destinata al consumo serale col rientro dal lavoro dei genitori.
Allora, cosa fare? Come mettere in pace lo stomaco sempre più ribelle?
Girando per casa ricorda che dentro il “cascione” (grande cassa di legno divisa in diversi scomparti, ove venivano conservati cibi da consumare in momenti successivi o nella stagione invernale), nel sottostante piano terra (catoio) potevano ancora esserci delle castagne da tempo conservate dopo la cottura al forno, oppure qualche altro frutto secco, sicuro comunque che di fichi secchi, più o meno gustosi, non potevano mancare.
Non perde tempo e sollevata la botola, attraverso la scaletta in legno, scende nel luogo sottostante riservato oltre alla conservazione dei cibi da consumare nell’inverno, ad altre derrate alimentari, come l’olio nella “giara”, il vino nella botte e quand’era possibile, le parti del maiale macellato in casa, appese con appositi ganci alla soffitta, etc.
Con ansia si dirige al grande recipiente diviso in scansie e rovistandolo, trova quanto cercava: mezzo paniere di fichi secchi si direbbe pronti al consumo, così invitanti…
Con immensa gioia, preleva il piccolo contenitore costituito da un canestro, di fattura locale, lo porta sopra e sedutosi sul letto, avidamente dà inizio al consumo della prelibata pietanza. Non si ferma se non al penultimo fico, quasi presumendo un diverso impiego. Quindi soddisfatto, comincia a pensare:
– ora bisogna prepararsi agli inevitabili rimbrotti e rinfacciamenti dei genitori che se al corrente di quella giacenza, non certamente ci passeranno sopra, non foss’ altro, che per i disagi conseguenti alla famiglia.
Bisogna trovare, pensa, qualcuno da incolpare, ma che non può difendersi. Ma chi? “Ah!”:
-Ricorda i momenti prima dell’accaduto quando si era soffermato a osservare il crocefisso, ed ecco: “ma non posso dire che è stato lui?”
Quindi, con il fico residuo, imbratta la bocca e la faccia del crocefisso, per rendere verosimile l’accaduto ideato.
La sera purtroppo, al rientro dei genitori, succede quanto meno si augurava: per una imprevedibile esigenza, (il rientro dalla campagna era stato anticipato a causa della pioggia e per lo stesso motivo non era stato possibile fornirsi di qualche residuo frutto o verdura da quella avara terra) la mamma si reca a rovistare nel “cascione”, fiduciosa e tranquilla che per almeno quella sera non ci sarebbero stati problemi. Ma grande fu la sua delusione e rabbia e soprattutto preoccupazione, in quanto, considerata la tarda ora, procurare cibo per sfamare quelle creature si rendeva alquanto difficoltoso, allorchè, anche per la mancanza del contenitore e il rinvenimento sotto il letto, ebbe piena coscienza dell’accaduto. Al vano interrogatorio, seguirono rimbrotti e deplorazioni per il “manifesto egoismo” del “mangione”, con esclusione di “botte”, sol perché era considerato ancora convalescente e comunque, prima di tutto, la salute!
Al che, il malcapitato, trovandosi circondato da sguardi accusatori, e in sofferenza per la sua insana azione, con atteggiamento quasi risentito, ribatte:
“Non sono stato io, è stato quello là”, indicando il crocefisso.
“Chi, quello là, quale quello là” domandano i genitori, fratelli e sorelle, non sospettando minimamente si riferisse al crocefisso.
E Lui: “Quello là, u cristiceddu, non vedete che ha ancora la bocca e la faccia impiastrate dei fichi che ha mangiato!?”..
Questo post é stato letto 27430 volte!