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Pietro De Seta è noto ai più, il suo interesse per Mattia Preti – il celeberrimo pittore calabrese del Seicento – culminato in un suo saggio, citato spesso dagli studiosi d’arte.
L’artista è stato allievo dell’Istituto d’Arte di Cetraro; per poi diplomarsi, a Milano, presso l’Accademia di Brera.
Conoscere un artista da vicino aiuta pur sempre a capire non solo la sua arte: ma l’arte in generale. O meglio l’aspetto che questa forma d’ espressione umana prende ogni volta nel temperamento d’un artista.
Da cosa, nasce cosa. E così, dialogando con Pietro tra i suoi quadri, in quel mondo virtuale di forme e di colori che del mondo reale vuole tentare una sintesi, ho appreso – e forse anche lui ha appreso da me – un bel po’ di cose: che completano il nostro modo reciproco d’intendere l’arte; e d’intendere, in senso lato, la vita.
Costruire mondi immaginari, paesaggi di luoghi vicini o lontani; o, come nel suo caso, ricostruire l’immagine onirica della propria terra, frugando tra ricordi d’infanzia e rimorsi d’artista inurbato a Milano; non è impresa da poco. Ci vuole talento; una tecnica che aiuti il talento a disvelarsi; e soprattutto il cuore giusto che sappia scegliere, tra tante, una forma che abbia la forza d’evocare, senza blandire, ciò che l’intuito imperiosamente chiede.
E proprio il passaggio dalla vaga idea iniziale – quella che balla confusamente in testa – alla sua resa pittorica forma il banco di prova d’ogni artista; in cui riaffiora il suo specifico valore: di costruttore d’immagini che racchiudano un messaggio latente che sta a chi guarda decifrare; in maniera sempre diversa ma ogni volta allettante.
Ed in questo si riconosce in fondo lo stile d’ogni singolo artista: il suo linguaggio personale che lo rende unico tra tanti e ne dà quel che si chiama la sua cifra pittorica: cioè il suo modo d’esprimersi nel linguaggio muto dell’arte.
Per farsi uno stile proprio, ci vuole tempo e talento: come trovare la strada giusta tra tante che si presentano allo sguardo. E Pietro un suo stile è riuscito a formarselo: uno stile che gli ha dato oltre tutto la chiave per entrare in mostre di prestigio a Milano ed in altri luoghi dove l’arte è di casa.
Dipinge panorami, come tanti; ma i suoi si distinguono dagli altri per l’uso originale del colore che
riesce a portarvi: cieli azzurri mangiati da cirri di nuvole bianche che volteggiano lievi nell’aria; siepi screziate di rosso che bordano sentieri che guardano il mare; pale verdi di fichi d’india che hanno trofei di frutti rosati; tramonti infuocati di rosa-celeste che velano acque marine chiazzate di schiuma.
Insomma, i fondali marini che i nostri occhi sono abituati a vedere; ritratti in una gloria immacolata di colori che ne lascia preavvertire quasi la brezza spirante: quello che Pietro chiama, appunto, “Il respiro del mare”.
In più, egli ha ritrovato un espediente tutto suo che dà un risalto inusitato ai suoi quadri. Può capitare così di vedere una splendida marina che perde di scatto il suo profilo naturale per via d’un riquadro centrale che ne altera la normale percezione.
Come se una lente fosse posta sopra il quadro e, per effetto d’ingrandimento e rifrazione, desse un’immagine in risalto – riveduta e corretta – d’una porzione del dipinto.
Una sorta d’aggiustamento ottico che va di là della trovata tecnica; e lascia nell’occhio e nella mente di chi guarda una specie di malia visiva che si traduce in fondo in una curiosa lezione d’école du regard.
Un copia-incolla della percezione mnemonica che sovrappone all’immagine ordinaria un’aggiunta improvvisa e di dettaglio che, scomponendo la visione, s’offre come un suggestivo punto di vista ausiliare.
Inutile domandare a Pietro come abbia fatto ad escogitare questo trucco che rende inconfondibili i suoi quadri o quando gli sia venuto in mente per la prima volta.
Vi dirà di non saperlo e di non ricordarlo. Certe magie riposano nell’animo da sempre; basta un momento ed ecco che riaffiorano di scatto.
Per imprimersi per sempre sulla tela e suggerire a chi guarda cosa vedono gli occhi verdi di Pietro quando avverte, nella mente, il respiro del suo mare.
CARLO ANDREOLI
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