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Prof. Filippo Violi
Il termine Graecanicus
compare inizialmente, a quanto ci è dato sapere, ai primi del secolo XV in una relazione che Giovanni Epifanio, abate di
Nardò in terra d’Otranto, mandava al papa Giovanni XXIII, sullo stato antico e recente di quella chiesa. E, sul finire dello stesso secolo, il Galateo scriveva nel suo opuscolo a proposito della città di Gallipoli: Sentio enim hic aliquid Graecanicum. Agnosco, imo olfacio Graecanicos quosdam ritus, quamvis haec urbs, consenescente, et in occasum vergente Graecia, ut caeterae Italiae urbes, graecam linguam, qua me puero utebatur, omiserit; mores tamen non penitus omisit. Da quel momento in poi il termine Grecanico fu adoperato per indicare più vastamente i Greci di Calabria e di Puglia , i quali ultimi, vengono chiamati anche col termine di Griki. Resta comunque da segnalare che sarebbe più opportuno definire gli attuali abitanti dell’isola ellenofona col termine di calabro-greci, e col termine di grecanici gli abitanti della Calabria che un giorno fu greca. Un’altra testimonianza sul termine grecanico la dobbiamo al Breve di Pio IV (1564). Qui si riporta infatti una norma di garanzia per la comunità greca la quale era stata comunque sottoposta alla giurisdizione degli ordinari del luogo: Per hoc tamen non intendimus, quod ipsi Graeci ab eorum Graecanico ritu abstrabantur, vel alia desuper quoquomodo per locorum Ordinarios, aut alios impediantur.
La fine del rito greco in Calabria
La storia dei paesi greci di Calabria segna una profonda battuta d’arresto con la fine del rito greco nella diocesi di Bova e la quasi completa latinizzazione del territorio. Non v’è stato storico sufficientemente asservito ai nuovi padroni, che non si sia sforzato di dimostrare che il rito greco doveva scomparire per consunzione naturale e a causa dell’ignoranza dei suoi preti. Le accuse più varie si accumularono su di essi: rilassatezza dei costumi, avidità di ricchezze, vita scostumata, ignoranza dei testi di liturgia. In realtà una serie di concomitanze furono utilizzate per la soppressione del rito greco a Bova, così come in verità era stato per le altre diocesi. Innanzi tutto v’è da segnalare che la classe che a Bova deteneva il potere economico e politico era quella dei proprietari terrieri e certamente si palesava più aperta verso le innovazioni che venivano dalla città. La lingua da loro parlata, oltre al grecanico, per i continui contatti con il mondo esterno che li circondava, era anche il dialetto calabrese neolatino. Evidentemente nel contatto con le genti delle altre città si sentiva a disagio nel parlare una lingua diversa e nel professare un’altra fede religiosa. E’ chiaro che i ceti dominanti in Calabria erano ormai tutti di confessione latina e di lingua italo-calabra per cui non ebbero remore a schierarsi con quel mondo che essi consideravano più civile. Così quando fu nominato amministratore della sede di Bova Fra’ Giulio Stauriano, che intanto continuava a mantenere il titolo di Mègara, essi gli furono accanto in quel opera di demolizione del rito greco. Fra’ Giulio prese possesso della sua nuova sede il 30 maggio 1571 e da subito si rese conto che essa era una piccola e povera diocesi. I confini della sua sede erano delimitati dal torrente Amendolea, nel lato verso Reggio, e dalla fiumara di Bruzzano, verso Locri-Gerace. Pochi e inadatti i collegamenti tra i paesi della diocesi; cinque – seimila gli abitanti tutti di lingua greca; tutti posti sui monti i paesi e chiusi da secoli di isolamento. I loro nomi sono gli stessi, fatta eccezione per qualcuno, che ancora oggi appartengono all’area della grecità e dell’ellenofonìa: Bova, Amendolea, Gallicianò, Roccaforte, Roghudi, Africo, Pietrapennata, Palizzi, Brancaleone, Staiti. Bova ne era la capitale, “ i Chòra”, ed aveva resistito alla latinità incalzante anche quando tutte le altre diocesi erano state costrette a subire il predominio dei latini. E nonostante ciò a Bova l’attività degli scriptoria era ancora abbastanza fiorente. Giorgio di Costantinopoli, nel 1552, aveva redatto una nuova edizione del Typicon di quella chiesa; Nicola Manglaviti trascriveva i testi allora in uso. Poco prima di Fra’ Giulio era stato vescovo di Bova Achille Brancia che mal sopportava l’invadenza del metropolita di Reggio. Ben presto il Brancia, suffraganeo del vescovo di Reggio, all’epoca Gaspare dal Fosso, aveva denunciato l’arroganza dei visitatori inviati dai metropoliti in una seduta del concilio di Trento, votando contro alcune proposte del dal Fosso. La spuntò naturalmente quest’ultimo che costrinse il Brancia alle dimissioni. Eppure sotto il vescovato del Brancia il clero aveva mantenuto una buona competenza nella lingua e
nella liturgia ed egli stesso aveva partecipato con fervore attivistico al concilio tridentino. Aveva infine favorito la trascrizione degli ultimi codici greci di Calabria. Ma tant’è, dovette andarsene lasciando la diocesi in una situazione di anarchia. Questa era la situazione che trovò Fra’ Giulio al suo arrivo. Per prima cosa riaprì al culto la cattedrale dell’Isodia e vi collocò, il 23 novembre del 1572 le reliquie dei santi apostoli Andrea e Giacomo. In quel giorno e, più ancora dopo la solenne liturgia del 20 gennaio 1573, si era compiuto infatti l’ultimo atto contro la chiesa greca: Bova, estremo baluardo della grecità religiosa, si “consegnava” nelle mani della chiesa latina. Fra’ Giulio credette così di poter uscire da quel isolamento umano e culturale che era rappresentato dal fatto di essere il solo vescovo di rito greco in mezzo alle diocesi latine. L’ironia della sorte volle che a mutare il rito religioso a Bova fosse proprio un vescovo greco di origine armena: il cipriota frate Giulio Stauriano che, d’accordo con i notabili della città, mise i bovesi davanti al fatto compiuto. In realtà v’è il sospetto che frate Giulio Stauriano fosse stato mandato fin qui dalla Curia Romana proprio perché la presenza di un vescovo di rito greco avrebbe reso meno doloroso e traumatico il passaggio al rito latino. Le scuole di grammatica latina e di canto gregoriano, per le quali Fra’ Giulio continuava a ripetere di aver speso somme ingenti, erano infatti già funzionanti. Né egli mancò di affermare che era stato lo stesso papa Pio V ad imporgli oralmente di “ridurre il suo clero dal rito greco al latino”. Fra’ Giulio cercò in tutti i modi comunque di nascondere la portata reale del suo progetto ed agì in maniera tale da mettere tutti davanti al fatto compiuto, come se ciò che stesse facendo, più che essere un fatto di una certa risonanza, non fosse altro che un mero fatto amministrativo. Il suo primo passo fu la Parrocchia di Palizzi, paese in feudo agli Aragona d’Ayerbe, conti di Simeri (ancora ne persiste il toponimo). Dal passaggio al rito latino i feudatari e il protopapa Pietro d’Arena ne ricavavano il vantaggio maggiore, anche perché tutte le proprietà della parrocchia di Sant’Anna, della cappella di santa Caterina e della chiesa di San Leonardo passavano in mano ad una comunìa della quale potevano goderne soltanto i preti di rito latino. Insomma, per alcuni preti, “poscia più che il dolor potè il digiuno”, direbbe padre Dante. E così fu! I preti greci che non si adeguarono, furono ridotti in miseria e sopravvissero facendo i contadini ed officiando nelle povere chiese rimaste in mano loro. A Bova invece la resistenza era maggiore ma Fra’ Giulio cercò di aggirare gli ostacoli recandosi a Roma con delle credenziali che non lasciavano spazio all’immaginazione. I notabili bovesi infatti, sapendo che il precedente vescovo, Achille Brancia, era in odio al cardinale Sirleto (punto di riferimento a Roma dei calabresi), aggiunsero alle parole del vescovo bovese ed a quelle del metropolita di Reggio dal Fosso, una lettera che doveva fungere da compiacente presentazione, avendo Fra’ Giulio – a detta dei notabili- liberato la città “dagli mano di faraoni et posta in luce “ A frate Coluccio Garino, prete greco e tesoriere della cattedrale, non rimaneva altro che lanciare il suo anatema contro quanti avevano favorito il passaggio dal rito greco al rito latino. Ma la cosa non terminò qui, sic et simpliciter, perchè non tutte le comunità parrocchiali si rassegnarono a “consegnarsi” nelle mani dei latini. Molte continuarono ad officiare col vecchio rito e con i loro Protopapi, anche perchè – e la cosa parve opportuna – gran parte del popolo si esprimeva e conosceva la sola lingua greca. Anzi i risentimenti furono tanti e tali, proprio a causa della lingua, che fu creata una collegiata greca nel 1625. E l’Arcivescovo d’Afflitto, tra la fine del XVI sec. e l’inizio del XVII, affermava ancora che nelle sue visite pastorali aveva trovato sacerdoti, diaconi e libri corali greci a Motta S.G., Pentedattilo, Montebello, S.Lorenzo, S.Agata. I grecanici comunque cominciano a fare uso della lingua volgare e a scrivere in caratteri latini, perdendo, lentamente ma inesorabilmente, la loro distinzione etnica. Grave danno fu aver provocato tutto questo, dal momento che lo stesso Vaticano II aveva dichiarato che “… che conoscere, venerare, conservare e sostenere il ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali è di somma importanza per custodire fedelmente la pienezza della tradizione cristiana e per condurre a termine la riconciliazione dei cristiani d’Oriente e d’Occidente”. Ma evidentemente a nulla era servita l’opera di S. Nilo e dei monaci e, più che il “ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali”, stava cominciando a far gola il patrimonio economico degli stessi! Oggi, a distanza di quattro secoli e mezzo, il rito greco sta ritornando in questi luoghi. Bova, Bivongi, Gerace, Gallicianò, ecc. vedono già la presenza dei papades greci e dei monaci di Monte Athos.
Prof. Filippo Violi
zorbagreco@iol.it
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