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Domenico Stranieri
C’è un monito in “Gente d’Aspromonte” di Corrado Alvaro che tanti amano ripetere e che riferendosi alla civiltà contadina raccomanda: “ È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”.
Al di là del grande merito degli scrittori, che hanno narrato storie e paesaggi della nostra terra e della nostra cultura, c’è ancora qualche persona che custodisce i segni, o meglio le immagini, di un mondo che si è trasformato senza progresso, caratterizzato solamente dalla “diaspora” di gran parte della sua popolazione.
A Sant’Agata del Bianco (RC), ad esempio, Giuseppe Sicari, fotografo autodidatta in pensione, negli anni ’70 ha iniziato un lavoro immenso che oggi rappresenta qualcosa di unico nel suo genere.
Sicari, difatti, ha realizzato 582 fotografie e circa 700 diapositive che ripercorrono, passo dopo passo, tutte le fasi di lavorazione di attività manuali che oggi non esistono più.
Le immagini sono sistemate, in modo preciso e sistematico, in pannelli da 70×100 e già nel 1988 erano state esposte in una mostra a Villaggio Palumbo, in Sila, suscitando molto interesse. Ma non solo. Sicari ha anche vinto premi nazionali di fotografia e di lui si sono occupate importanti riviste. Ma egli è un uomo riservato e parla poco di questi riconoscimenti, quasi con discrezione. La luce del suo sguardo si accende, invece, quando ci porta nella stanza dove conserva i suoi lavori. Tutto è catalogato alla perfezione e quella che potrebbe essere una splendida esposizione fotografica, soprattutto per le nuove generazioni ma anche per studiosi o appassionati, è già suddivisa in:
Mestieri (Arrotino, Bastaio, Calzolaio,Carbonaio, Fabbro, Falegname, Lavandaia, Maniscalco, Ombrellaio, Ricamatrice, Spaccapietra, Scarpellino, Stagnino, Vasaio e Zampognaio); Oggetti (Chitarra, Cucchiaio, Forno, Paniere, Scopa, Sedia); Prodotti (Maialatura, Miele, Olio, Sapone di casa); Cicli Produttivi (Fiscella, Formaggio, Vendemmia, Bottaio, Semina, Pane di Casa).
Particolarmente dettagliata è anche la lavorazione della Lana (Tosatura, Cardatura, Filatura, Orditura e Telaio) e della Seta (Maciulla e Baco da seta). Alcune di queste attività sono state seguite da Sicari anche per un anno intero, con la passione di chi sa che ogni tempo ha una sua bellezza passeggera, delle tracce inconfondibili che bisogna cogliere. Difatti, gli uomini e le donne delle foto sono persone quasi tutte scomparse, ultimi eredi di una “maestranza”, quella santagatese, rinomata nell’intera provincia di Reggio Calabria. Le scene si susseguono come in un film, ripercorrendo le operazioni di trasformazione di un oggetto o di un prodotto. E la tecnica dei vari “mastri” non può che affascinare. Essi, difatti, esprimono la stessa naturalezza degli artisti. In ogni pannello, per di più, vi è una precisa didascalia scritta dal fratello di Giuseppe Sicari: Rosario. Quest’ultimo, scrittore e saggista nonché studioso attento della questione meridionale, è autore di apprezzabili romanzi. Così, seguendo parole e immagini, si penetra nel tempo dei nostri padri e dei nostri nonni, in un mondo ove qualsiasi oggetto era essenziale e non si buttava quasi nulla (poiché tutto poteva servire e ogni cosa si poteva aggiustare).
Varie fotografie fanno persino tornare in mente le parole di Saverio Strati, che in “Mani vuote” (Mondadori, 1960) racconta: “Scendemmo soli in fondo alla valle scura e umida, a circa mezz’ora dalla carbonaia. C’era fumo e odore di legno verde che bruciava; e si udivano rumori e voci. La gente lavorava, lavorava in quell’angolo di terra lontana dal resto degli uomini. Nessuno può sapere queste cose, se non ci vive, nessuno può crederci se non le vede”. Ecco, il lavoro di Sicari ci dà la possibilità di vedere cose che altrimenti potremmo solo leggere ed immaginare, come le scene delle varie fasi per mettere su le “carbonaie” descritte da Strati, che partono da un solo legno posizionato al centro di un cerchio e finiscono con l’opera completa (quasi splendidi igloo costruiti da migliaia di pezzi di legname che, per produrre il carbone, devono bruciare per più di trenta ore). Non so se in Calabria esista un simile lavoro, così particolareggiato e specialistico. Di certo, Sicari, negli anni ’70, aveva capito che le cose stavano cambiando ed un mondo stava per finire. Per questo, oggi, è custode attento di un patrimonio che solo l’ottusità dei nostri tempi può portarci a trascurare.
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