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Dal porto di Napoli partivano i bastimenti pe’ terre assai luntane. Mastro Ciccio, nella III classe del “Prince Louis”, si sentiva come Giona nel ventre della balena. Lo odiava quel piroscafo. Lo odiava come poi avrebbe odiato il “Conis Albert” con cui andò in America la seconda volta e se lo videro piangere quando, durante la seconda guerra mondiale, sentì alla radio che erano stai ambedue affondati fu soltanto perché gli era andata qualche luvìa negli occhi.
Nato e cresciuto in montagna, non lo sopportava il mare mastro Ciccio. Dall’alto di Bova guardava con piacere quell’immensa distesa di acque ma, ora che ci navigava sopra, lo temeva quel mare senza bucissi, e senza altri appigli, e toccava spesso l’abitino della Madonna che la madre gli aveva appeso al collo alla partenza.
Ancora da vecchio, ricordava con fastidio quei 18 giorni di mare e cielo, cielo e mare; cielo e mare, mare e cielo. Diciotto giorni senza toccare cibo per lo sconcerto. Andava avanti a birra e noccioline. Americane, naturalmente.
Quando stava un po’ meglio saliva in coperta a chiacchierare coi compaesani. Un giorno mastro Titta esclamò: Nc’è na bella ficara nigra cca bbasciu a Stenomati… come se, anziché sul ponte di una nave, fossero ancora seduti sugli scalini della chiesa dello “Spirito Santo”. Poi si ricordò dov’era e dove stava andando, si calò la berretta sugli occhi e pianse silenziosamente.
Per non togliere la berretta a nessuno mastro Ciccio stava andando in America. Cercava la propria dignità di lavoratore, non inseguiva la ricchezza. E infatti non la raggiunse mai. Quando finalmente c’era da buscare tanti di quei dollari da riempire un sacco marinaresco, tornò in Italia a difendere la Patria. Come se non gli fosse bastato il freddo preso in Pennsylvania, andò nelle trincee del Carso a prendersi il rimanente e pure una scheggia in faccia che per poco non lo lasciava secco.
Ma aveva promesso di non restare in America, di non sposarsi là come aveva fatto Gesualdo, il fratello più grande, che non tornò mai più. E certo che non tornava. Durante il viaggio d’andata in Argentina fece naufragio e si salvò per miracolo. Chi glielo dava il coraggio di riaffrontare il mare? E così la frase con cui immancabilmente chiudeva le sue lettere, “Non perdo la speranza di riabbracciarvi”, rimase soltanto un vezzo stilistico.
Da ragazzi bisticciavano sempre Ciccio e Gesualdo. Donna Agatuzza, la madre, imprecava esasperata: Mi finiti alli ddu’ capi di Regnu! E ora che erano finiti uno in Nord-America e l’altro in Argentina, piangeva, la povera donna, convinta che li avesse colpiti la sua hjastima.
Mastro Ciccio Borrello, il nonno, non piangeva. Si inginocchiava accanto ad una pignolara che Ciccio aveva piantato a Brigha e pregava che il nipote tornasse. E Ciccio tornò.
Per il ritorno di mastro Titta probabilmente non pregò nessuno. Tornò infatti solo vent’anni più tardi. Si incontrò con mastro Ciccio e si abbracciarono a lungo. Si era portato appresso la moglie americana che non spiccicava una parola d’italiano e ne balbettava soltanto due o tre in dialetto. Era la festa di San Rocco, lasciarono la donna sola in piazza e lui e mastro Ciccio, parlando dei bei vecchi tempi, si avviarono verso Stenomati per vedere se c’era ancora la ficara nigra.
“Dimmi la verità, Titta, adesso che siamo soli: come te la passi in America? Ti sei adattato?
All’uomo vennero le lacrime agli occhi, come quella volta sulla nave, e, con amara ironia rispose:
– “L’America..? chi voi…? dopututtu… li primi vint’anni su’ brutti, ca poi…
Sua moglie intanto si era avventurata in mezzo alle bancarelle ed era rimasta attratta da quella della calia con quei strani biscotti di tante forme e decorati con stagnola colorata. Si avvicinò tentando di farsi capire e quando, chiedendole cosa diavolo volesse, il venditore finalmente le indicò li nsuddhi, esclamò soddisfatta: Yes, yes!
No, mi dispiace – si rammaricò il venditore – i “S” i finimmu: o “Pisci” o “Cavaddhuzzi”.
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