Cosenza, il segreto dello spirito nell’opera di Michelangelo svelato da Gianfranco Labrosciano

Gianfranco Labrosciano

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Gianfranco Labrosciano
Gianfranco Labrosciano

Il trionfo del sublime, la meraviglia dell’arte che sfugge a definizioni, sconfiggendo le derive del tempo e raccontando, sempre, un inganno quantomai sincero.

È lo sguardo di un dio dal volto di Sileno, è “l’artista che mente raccontando la verità”, come ha magnificamente sintetizzato, in un silenzio solenne, sul palco del teatro Garden di Rende, il critico d’arte e scrittore Gianfranco Labrosciano, che ha celebrato, con grazia e raffinata erudizione il cinquecentenario della Cappella Sistina.

Ci ha raccontato Michelangelo dentro e al di là dell’estetica e dell’estatica contemplazione di un tempo più resistente della pietra sulla quale era stato inciso, “perché Michelangelo è l’esaltazione di un artificio che fa dell’arte uno strumento di immortale verità”. Come nella Tomba di Giulio II nella chiesa di San Pietro in vincoli, dove svetta un Mosè imperioso e austero “attraverso il quale Michelangelo trasmette il proprio pensiero e la propria posizione sulla religione con lo sguardo di Mosé rivolto alla statua alla sua sinistra, che non rappresenta, come per secoli si era pensato, semplicemente Lia, ma l’essenza stessa della fede” legata però all’anelito riformistico luterano, contro le ingerenze papali raffigurate da Rachele, cui il personaggio biblico, invece, rifugge, “in contrasto con i teoremi delle indulgenze e del potere papale”.

“Grazie a questo artificio – ha svelato il critico – il grande maestro toscano riesce a ingannare perfino quella Chiesa ancora corrotta e profondamente riformatrice, lasciandoci comprendere la propria posizione attraverso quello sguardo. Mosè, infatti, dapprincipio guardava in avanti. Poi Michelangelo sposta il tiro, deviando lo sguardo su quella che si riteneva essere soltanto Lia, e che lui stesso aveva lasciato presupporre attraverso la cronaca lasciata redigere a un mediocre scrittore, il Condivi”.

Labrosciano ci ha insegnato che la bellezza sta nel dettaglio e nell’ermeneutica, perché “saremmo dei folli a pensare di poter dire l’ultima parola su Michelangelo”.

“Milioni di di persone, nel mondo, oltrepassano l’oceano per vedere le bellezze dell’Italia e vanno via con un solo pensiero nel cuore: sperare, un giorno, di poter ritornare”.

Suggestivo ed elegante, l’incedere dialettico del critico è stato intermezzato dalle piroette del ballerino Luca Lago (coreografia di Pino Librandi), e dalla musica meravigliosa di Giulia Moraca, una bambina di dieci anni che porta nel sangue l’armonia delle note, che ha pizzicato le corde di un’arpa al cospetto della quale pareva dolcemente minuscola.

“Perché l’arte è dei giovani, è di chi si affaccia alla vita, ed è essa stessa, vita”, ha detto il critico dal palco. L’omaggio a Michelangelo è l’omaggio alla bellezza e al camuffamento, come nella Pietà Rondanini, laddove “l’artista indossa la maschera di Nicodemo per raffigurare sé stesso in quello che ho inteso definire l’enigma di pietra, il segreto de tempo e dello spirito che quest’opera porta in grembo”.

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Author: Cristina

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