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Prendete un paio di forbici. Fatto? E ora un cartoncino. Fatto? Ora manca una bomboletta spray, una matita per ricalcare su cartoncino il simbolo scelto e avete il risultato. Questo è un “Art Attak”!
Costretti a tornare sui “fatti” di vico Belvedere II, non rimane che ironizzare sui paradossi dell’episodio, mostrando come anche un bambino possa procurarsi quanto occorre per disegnare un simbolo su un muro. E’ per questo che, non accettando il fango mediatico, nei confronti di quanti hanno usato il nostro nome in maniera impropria è stato dato mandato di sporgere querela.
Ma il punto non è più il nostro coinvolgimento o meno nella questione, su cui abbiamo fatto chiarezza, ma le responsabilità dell’informazione nell’alimentare gratuitamente tensioni intorno a CasaPound. Tensioni che hanno portato la nostra responsabile provinciale Cinzia Cugnetto a ricevere anche telefonate minacciose. Perché, se chiunque a sinistra – politicanti e sindacati politicizzati inclusi – ha acriticamente dato per scontato il nostro coinvolgimento e solidarizzato, il dato per noi rilevante è il peso ed il tono riservato dalle testate alla notizia, riportata acriticamente con lo stesso peso e tono scelto per loro da chi ci accusava, contribuendo così al circolo vizioso.
Un giornalismo serio non è quello che sul copia-incolla dei comunicati crea casi mediatici, ma quello che ne valuta le affermazioni espresse e calibra il “peso” della notizia rispetto a quella che l’attore in causa tenta di dargli, se non altro per avvertire il lettore o darle il giusto spazio.
Titoli e articoli che definiscono delle scritte sul muro, con linguaggio impropriamente militare, un “attacco fascista” o un “raid”, sono semplicemente contrari ai principi del giornalismo, chiamato a dare ad ogni cosa il proprio nome, senza fornire descrizioni allarmistiche o appunto improprie.
Venendo alla contestualizzazione, sarebbe stato professionalmente meritorio se qualcuno dalle foto avesse notato, anziché dar credito alla retorica del posto “ripulito dal degrado”, che ogni scritta (eccetto due) va a sovrapporsi a scritte e scarabocchi di stampo non certo “fascista” che ricoprivano già tutta l’area, abitazioni private comprese. Dunque, quella che racconta l’arrivo di “turpi fascisti” a turbare l’ordine di un posto lindo da quando ci sono i bravi ragazzi dell’ Lsoa Ex Palestra è una bugia bella e buona e che porta almeno a due, finora, le non-notizie messe in primo piano.
Infine, veniamo alle altre falsità servite a gonfiare la vicenda contro di noi, esprimendo en passant le nostre perplessità anche intorno alla definizione bugiarda di “occupazione”, dal momento che il luogo (che si riduce ad un prato accessibile a chiunque) risulta evidentemente abbandonato e non presidiato. Ci chiediamo, dunque: di cosa stiamo parlando? E, soprattutto, che occupazione è quella per cui un sindaco, anziché denunciarne l’abusivismo, difende con tanto di comunicati quell’occupazione appunto abusiva da presunti “attacchi esterni”? Delle due l’una: o l’area non è occupata e dunque il sindaco difende quell’area solo in quanto comunale o quel sindaco rappresenta una parte anziché tutti i cittadini e quei cittadini possono darsi arie da occupanti e ribelli solo grazie al beneplacito delle istituzioni. Le occupazioni sono altra cosa.
Ma veniamo finalmente all’ultimo e principale atto della retorica antifascista, che in questa occasione ha dato il meglio di sé: le minacce, le svastiche e la ritorsione effettuata in seguito alla solidarietà dei presunti occupanti con i migranti della zona e non solo. Qui il teorema sfiora il ridicolo, dal momento che neanche una frase di quelle puntigliosamente fotografate riportava offese o minacce nei confronti di extracomunitari o di chiunque altro. Senza parlare delle svastiche, di cui tutti parlano, ma che in realtà non sono presenti in nessuna delle ben diciotto foto pubblicate dallo stesso Lsoa Ex Palestra.
Fantasiose strumentalizzazioni prive di basi fattuali lanciate da chi denuncia, senza che nessuno si sia preoccupato di accertarne la consistenza.
Se queste sono notizie, allora il consiglio è di fermarsi per strada e fotografare le decine di slogan intolleranti e violenti con i quali questi “bravi” ragazzi dei centri sociali di sinistra quotidianamente inneggiano alle foibe, alla strage di Acca Larentia, a quella di Nassirya, alle Brigate Rosse e, per finire, al noto motto per cui “uccidere un fascista non è reato”. Quello stesso motto a cui un’informazione acritica, che alimenta tensioni ingiustificate, rischia colpevolmente di offrire le solite coperture che, negli anni Settanta, hanno portato quasi alla guerra civile.
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