I Riza… La lunga radice dei Greci di Calabria

Questo post é stato letto 51280 volte!

I Riza… La lunga radice dei Greci di Calabria.
Allargando gli orizzonti… dall’Italia bizantina alla Calabria bizantina
Alla morte di Atalarico, nipote e successore di Teodorico, nel 534 gli insanabili scontri ereditari fra i Goti diedero all’imperatore d’Oriente, Giustiniano I (527-565) l’atteso pretesto per intervenire in Italia. In generale questo faceva parte di un complessivo piano di riconquista della sezione occidentale dell’Impero considerata parte della comune eredità romana.

Inoltre, senza dubbio, i bizantini trovavano nell’Italia meridionale genti di comune radice culturale, gli eredi ellenofoni della Magna Grecia. Com’è noto, l’anima latina e quella greca avevano da sempre convissuto nella storia dell’Impero Romano in quella magnifica osmosi civile che ben conosciamo. A proposito dell’identificazione culturale con l’Impero medesimo bisogna notare che i Bizantini definivano essi stessi Romioi in altre parole Romani. Lo stesso cognome Romeo tutt’oggi presente nella Calabria di radice bizantina significa, in greco, “romano”.

Lo scontro fra Goti e Romei durerà circa vent’anni, dal 535 al 554, stremando non solo i combattenti quanto la stessa Italia campo di battaglia ed oggetto della contesa. La “pacificazione” dell’Italia resse ben poco. Nel 568, infatti, l’invasione longobarda sconvolse gli equilibri della Penisola costringendo i Bizantini ad una coabitazione con i vari principati longobardi che si vennero a creare in vari punti d’Italia. In linea di massima per qualche tempo i longobardi si attestarono maggiormente nel nord lasciando l’area meridionale all’Impero d’Oriente. Già dal VI secolo, in ogni modo, i domini bizantini d’Italia vengono organizzati politicamente in Esarcato (In questo stesso periodo s’inizia ad utilizzare la parola exarchos con il significato di comandante militare supremo). L’Esarca d’Italia era così l’autorità suprema della Penisola. Sino alla conquista longobarda del 751, sede dell’Esarcato rimase Ravenna data la sua posizione strategica anche per il controllo dell’Adriatico. Già all’inizio del VII secolo il territorio bizantino in Italia si era ridotto alla Laguna Veneta, alla Romagna, alle Marche settentrionali, allo stretto corridoio umbro della Via Armerina al Ducato di Roma, a quello di Napoli alla costa pugliese ed a quello calabrese a sud del Crati. Sardegna e Sicilia appartenevano all’Esarcato d’Africa. Solo verso la fine del VII secolo la Sicilia stessa fu trasformata in Tema con giurisdizione anche sulla Calabria. In quello stesso periodo il nome Calavrìa fu trasferito dalla Terra Salentina all’antico Bruttium. L’odierna Calabria appunto.

Nei primi decenni del IX secolo iniziò la conquista araba della Sicilia promossa dagli Aghlabiti. La conquista della Sicilia non fu contrastata decisamente poiché il potere centrale pareva più preoccupato di difendere gli stessi Balcani insidiati dall’espansione islamica (Gli arabi avevano, infatti, presa Creta nel 826). La presenza araba in Sicilia favorì anche sul continente la diffusione di truppe mercenarie nordafricane al soldo degli stessi duchi bizantini. Questo comportò una convivenza non sempre facile fra le milizie saracene e le popolazioni locali. Doveva essere veramente labile, sotto tutti i punti di vista, agli occhi degli abitanti la distinzione fra l’arabo che piombava sulle coste calabresi per una scorreria e quello presente più stabilmente “per lavoro”, come mercenario militare. Si tratta, comunque, del segno di una situazione forzatamente “multietnica”, diremmo con parole d’oggi, ma resa ancor più precaria dai rapporti altalenanti dei bizantini con i principati longobardi (oscillanti fra atteggiamenti di vassallaggio e di rivalità con il mondo bizantino). Questi erano, infatti, presenti nello stesso Mezzogiorno ed anche alle loro dipendenze operavano spesso milizie di ventura saracene confondendo ulteriormente lo scenario.

Sotto il profilo politico, nonostante la caduta della Sicilia, la Calabria continuò ad essere ad essa assimilata sino al X secolo. Solo allora l’amministrazione bizantina inizierà a riconoscere “ufficialmente” la sconfitta siciliana ed a varare il Tema tis Calavrìas. D’altra parte l’amministrazione del Tema di Calabria non si presentò facile per i bizantini. Le lunghe coste della regione erano quasi impossibili da controllare tutte e le incursioni saracene erano continue e devastanti. La presenza araba in Calabria, per tutto il periodo bizantino assunse probabilmente anche caratteristiche pressoché stanziali. Le milizie di ventura saracene significavano anche l’aggregazione di vere e proprie comunità legate alla loro attività. Reggio Calabria deve essere stato a lungo una città multilinguistica e multireligiosa con elementi latini, greci ed arabi e con forme di culto differenti che convivevano di fatto. Toponimi stessi come quello del paese aspromontano di Bagaladi si potrebbero far risalire a forme arabe come Baha Allah (Benedetto da Dio).

Alla fine del IX secolo Reggio, riconosciutamente capitale religiosa della Calabria, fu elevata al rango di metropoli. Tale Leone o Leonzio, è menzionato come metropolita al sinodo costantinopolitano del 879/880. L’ascesa di “prestigio” della Calabria fu, probabilmente, anche dovuta alla progressiva perdita del Tema di Sicilia, sino alla rovinosa conquista e saccheggio di Siracusa da parte degli arabi nel 878. Quando ciò era possibile, la politica bizantina faceva coincidere la capitale di un Tema ad un centro spirituale. Così Reggio divenne epicentro spirituale di gran parte della Calabria. Sue suffraganee erano le sedi episcopali di Vibo, Taureana, Locri, Rossano, Squillace, Tropea, Amantea, Crotone, Cosenza, Nicotera, Bisignano e Nicastro. Nello stesso periodo nella Calabria settentrionale sotto la metropoli di Santa Severina erano riunite le diocesi suffraganee di Umbriatico, Cerenzia, Isola Capo Rizzuto e Gallipoli. La presenza di questa diocesi pugliese, lontana via terra ma non altrettanto via mare, era dovuta probabilmente alla necessità di subordinare alla più vicina nuova diocesi una città ricostruita e ripopolata recentemente per ordine di Basilio I dopo le devastazioni arabe. Naturalmente tutta quest’attenzione da parte dell’Impero alla buona organizzazione delle diocesi di rito greco va ricondotto al secolare braccio di ferro fra Bizantini e Papato. Entrambi giocavano a mantenere la giurisdizione sulle proprie diocesi in una continua contrapposizione fra rito romano e orientale e naturalmente miravano ad acquisirne altre.

A tale complessiva riorganizzazione della Calabria e della Puglia sotto Basilio I, si deve anche l’operazione di ripopolamento delle province stremate demograficamente dalle guerre con gli arabi. Ripopolamento parzialmente conseguito con immigrazioni forzate di servi orientali e nel caso della Calabria anche con congrui contingenti militari armeni. Oltre che varie tracce nell’onomastica calabrese, di questa immigrazione permane il toponimo di Rocca Armegna, in italiano Rocca degli Armeni. Il paese fondato con l’insediamento di un contingente militare armeno ebbe per alcuni secoli importanza strategica grazie all’imponente castello. Fu abbandonato dagli abitanti solo ai primi del ‘900. La deportazione di popolazioni barbare o servili era un’antica tradizione del mondo bizantino. Spesso ove necessitavano contadini/soldati, nelle zone di frontiera o a rischio militare l’Impero provvedeva con questo strumento a rafforzare la propria presenza. Questo, verosimilmente, costava meno dell’invio di milizie dalla capitale. D’altra parte, la disponibilità militare di Bisanzio verso i suoi confini occidentali fu sempre molto più debole rispetto alla maggiore attenzione dedicata ai confini asiatici e balcanici. La stessa ricca Sicilia venne persa per queste ragioni. I nemici del momento, arabi, longobardi o normanni che fossero venivano tenuti a bada più con la diplomazia e la corruzione o il versamento di tributi talvolta anche molto pesanti che con il vero e proprio ricorso alle armi.

Come in tutto il mondo bizantino, la spiritualità aveva un ruolo centrale nella vita sociale e culturale. Il monachesimo greco, essenzialmente laico, ne fu il motore principale. Per ogni ceto sociale, dai nobili ai contadini, il monaco rappresentava, nel mondo bizantino, un vero modello esistenziale. Anche in Calabria, come in tutto l’Impero, fu elevato il numero dei monasteri privati costruiti spesso nei luoghi più impervi ed inaccessibili per garantire l’isolamento e la quiete che i monaci cercavano. Esempio più alto del monachesimo calabrese è senza dubbio la figura carismatica di San Nilo di Rossano. Di alta levatura morale e raffinata cultura egli godette di una certa fama ed autorità già in vita nonostante il grande rigore della sua scelta ascetica. L’agiografia monastica calabrese sotto i bizantini è ricchissima tanto da far meritare alla regione l’appellativo di aghiotokos ovvero “madre di santi”.

Sotto il profilo economico, la coltura del gelso era senza dubbio quella più redditizia in Calabria. Si trattava di gelsi da foglia piuttosto che da frutto, “mirati” alla sericoltura. La coltivazione di questa pianta subordinata a lunghi tempi di attesa prima di essere redditizia (circa 10 anni) era soprattutto nelle mani della Chiesa e dunque dell’Imperatore poiché nel mondo bizantino produzione e smercio della seta erano rigorosamente controllati dallo Stato. La presenza documentata di migliaia di alberi produttivi ci restituisce un’immagine della Calabria bizantina come in realtà molto ricca più che depressa dalle guerre e dagli scontri continui con gli arabi come nei luoghi comuni storici.

A livello commerciale, il Tema bizantino di Calabria ebbe solidi rapporti con la Sicilia araba che costituiva mercato per le sue sete. Tant’è che invece del Nomisma circolava il Tarì, moneta araba battuta in Sicilia. C’è in ogni caso da notare che il Tema bizantino pagava anche agli scomodi vicini un pesantissimo tributo annuale in cambio della limitazione di razzie e scorrerie.

In epoca bizantina va rintracciata la radice della tendenza allo spostamento degli insediamenti dal mare alla montagna per motivi sia difensivi sia di salubrità data la condizione di palude di buona parte delle zone costiere. Questo è rimasto sino ad ora un aspetto caratterizzante del paesaggio antropizzato in Calabria anche se proprio nel XX secolo si è assistito al processo opposto: l’abbandono dei siti interni per quelli costieri più facilmente raggiungibili.

Nuovi e decisivi protagonisti sulla scena storica del Mezzogiorno bizantino sono i Normanni. Giunti inizialmente come milizie di ventura nei primi anni del sec. XI, i cavalieri del Nord intrapresero la conquista sistematica sia dei temi bizantini sia della Sicilia araba debolmente retta dai Kalbiti. Gli eventi precipitarono anche in relazione al grande scisma del 1054 che separò la chiesa costantinopolitana da Roma. Ciò sancì il sostanziale appoggio del Papa ai Normanni contro i Bizantini scismatici. Inoltre Roma, da tre secoli, non si rassegnava alla perdita delle diocesi siciliane e calabresi poste sotto il controllo diretto di Bisanzio. Di queste e da sempre meditava la riconquista. Nel 1059 Roberto il Guiscardo prendeva Reggio e nel 1071 con la caduta di Bari si poteva considerare concluso il dominio politico dei bizantini sul Sud d’Italia e l’inizio della massiccia latinizzazione del culto e della lingua, specialmente in Calabria e Sicilia.

Mille anni di lentissimo declino della Grecità in Calabria

Sta di fatto che la latinizzazione religiosa che era stata più rapida altrove trovò in Calabria una certa resistenza, addirittura apparente protezione presso i nuovi padroni normanni. Attenzione però a non immaginare una sorta di mondo bizantino intatto “senza Bisanzio”. Già sotto i normanni se per alcuni decenni l’aristocrazia culturale greca in tutto il Sud Italia e in larga parte della Calabra otterrà un certo rispetto, dall’altra parte, in modo irreversibile, inizia la crisi del mondo ellenofono. I normanni stessi impiantavano esclusivamente nuove diocesi latine. Per motivi di prestigio, per non essere socialmente declassato, il clero greco si latinizzò.

I bizantini, dunque, non sbagliavano a considerare strategico il legame fra centri politici e centri spirituali. La rarefazione dell’ellenofonia in Calabria può così essere parzialmente dovuta alla progressiva latinizzazione delle diocesi. Come osserva Vera von Falkenhausen, alla fine del periodo Svevo gli ellenofoni superstiti erano in genere contadini analfabeti incapaci di gestire le istituzioni religiose ed economiche greche. Sostanzialmente la cultura greca cambiò collocazione a tutto suo svantaggio.

Da cultura dominante divenne cultura subalterna, sempre più legata ai ritmi ed alle funzionalità di un mondo interamente orale come quello pastorale e contadino. La latinizzazione che diverrà vorticosa dal XV secolo in poi verrà sia incoraggiata dall’avvicendarsi di dominatori di sicura fede romana (Angioini, Aragonesi, Spagnoli) sia, alla fine, dallo stesso clima della Controriforma.

Comunità ellenofona

La presenza di comunità ellenofone, per quanto subalterne continuò ad avere un suo ruolo nel contesto mediterraneo. La Calabria meridionale era ancora sostanzialmente ellenofona ancora fra il XIV ed il XV secolo. Tutt’oggi fortissime sono le tracce di questa presenza linguistica e culturale nella toponomastica, nell’onomastica, nel cosmo etno-antropologico, nei dialetti romanzi stessi di tutta la regione ma in particolare nel suo segmento centro-meridionale.

Sino a quando sopravvisse l’Impero d’Oriente, sotto i Normanni e poi con Federico II sino a circa al 1600 probabilmente i rapporti intermediterranei fra ellenofoni”d’occidente” e madrepatria linguistica rimasero in qualche modo attivi, favoriti anche dai commerci delle repubbliche marinare e dalla continua attività dei marinai greci. Non si può, inoltr, escludere una certa quantità di migrazioni verso occidente dai Balcani e dalle Isole greche che andarono a rimpinguare la presenza ellenofona in Calabria, in particolare nel periodo di massima pressione turca. La spinta turca sui Balcani e sul Mediterraneo continuò nonostante il freno posto dalla storica sconfitta di Lepanto ad opera della flotta “cristiana”(1571).

Alcuni decenni dopo Cipro, anche Creta nel 1669 cade dopo un assedio che durava dal 1644. Come dato di fondo non bisogna trascurare che storicamente l’Italia (ed il particolarmente accessibile Mezzogiorno) è sempre stata vista dai popoli balcanici come sponda utile in gravi momenti di crisi. Si pensi all’epica migrazione degli Albanesi di Skandeberg come alle recenti ondate di immigrazioni clandestine.

A proposito della lunga resistenza del rito greco in Calabria, sta di fatto che l’ultima diocesi orientale a cadere fu proprio Bova (Vùa) nel 1572. La romanizzazione, ironia della sorte, avvenne proprio per mano di un vescovo di origine cipriota e dunque egli stesso orientale, Giulio Stavriano. La comunità locale si vide privata del rito greco con un vero e proprio colpo di mano con il quale da un giorno all’altro venne instaurato quello romano.
IL XIX secolo si “accorge” dei greci di Calabria

La presenza di ellenofoni in Calabria finì per passare sotto silenzio per secoli. Probabilmente per le condizioni di marginalità della regione che si accentuarono fortemente già dal XIII secolo sino a divenire drammatiche con l’unificazione nazionale. Nell’ottocento la Calabria ellenofona doveva già probabilmente limitarsi all’Aspromonte jonico meridionale, e molto probabilmente, alla locride in un’area geografica poco raggiungibile anche dalla stessa Reggio Calabria. Il territorio impervio dell’Aspromonte, con il suo isolamento, garantì la permanenza di un’economia chiusa, diremmo di autarchica sussistenza sino a in sostanza la seconda guerra mondiale. Questo cosmo sostanzialmente autosufficiente consentì la resistenza dell’idioma. “Scopriranno” la presenza dei greci di Calabria (e di Puglia) alcuni folcloristi del XIX secolo sull’onda della generale moda europea che spingeva alla raccolta dei cosiddetti “canti popolari” e che in Italia aveva avuto una sequenza di illustri cultori: Tommaseo, Imbriani, Nigra, Rubieri, D’Ancona, Pitrè (per fare alcuni nomi noti ancora oggi) sino a Comparetti.
Dal nostro punto di vista registriamo come particolarmente interessante, anche se esigua, la presenza del mondo grecanico nella letteratura demologica ottocentesca. Si “scopriva” che, oltre al Salento, anche un oramai ristretto numero di paesi dell’Aspromonte meridionale conservava la parlata greca. “Saggi dei Dialetti Greci dell’Italia Meridionale” di Domenico Comparetti che esce nel 1866 è un esempio indicativo di questo rinnovato interesse. Nella sua stessa presentazione ai “Saggi”, Comparetti traccia un panorama di edizioni sulla lingua dei greci di Calabria e di Puglia piuttosto limitato ancora oltre la metà dell’Ottocento e lascia chiaramente intendere quanto la stessa esperienza di Cesare Lombroso, che lo aveva preceduto con una sorta di diario di viaggio in area grecanica non fosse qualitativa filologicamente poiché costituita in tutto da “una ventina di versi in pessimo stato, ed un piccolo numero di vocaboli raccolti a Bova, o nei paesi greci prossimi a questa”. Comparetti, per conto suo, fa presente molto chiaramente ed onestamente di aver attinto a fonti scritte senza mettere mai piede a Bova. Dei trentotto canti del suo corpus, ben trentacinque provengono da una raccolta effettuata nella Chora da un professore del Liceo Classico di Reggio Calabria, tale Tarra (altrove Terra). Gli altri tre, raccolti nel 1821 da Witte, sempre provenienti da Bova, gli arrivano dopo numerose trascrizioni ed edizioni fra cui la più rilevante è la raccolta di canti greci del Passow. Nonostante siano pervenuti a noi solamente nella forma del testo questi canti conservano per il lettore un innegabile fascino.

Una migliore attenzione non sarà su altri versanti riservata ai greci di Calabria dal citato Cesare Lombroso la cui osservazione, fra il positivista e l’antropometrico, rimanda più ad archivi ed a tassonomie animali che ad un vero discorso su una realtà culturale e la sua alterità. Così sono descritti gli abitanti dell’Aspromonte ellenofono in alcune pagine del suo “In Calabria” un testo definitivamente edito nel 1898 ma che era già apparso sin dal 1862 sulla “Rivista contemporanea”:

Molti di essi, specialmente i ricchi, conservano il tipo dell’Attica; fronte alta, spazio interoculare largo, naso aquilino, occhi grandi e lucidi, labbro superiore corto, bocca piccola, cranio e mento arrotondati, tutte le linee del corpo dolci ed aggraziate.
Il loro temperamento è linfatico e nervoso; fini, astutissimi, lascivi hanno grande mobilità di idee, tendenza al procaccio, e un poco al furto, somma facilità al canto e all’armonia.
Mentre sentiva a suo modo l’urgenza di “trascrivere quelle pochissime strofe prima che la stregua dell’Unità giunga a cancellare queste ultime e prestigiose vestigia dell’ellenismo”. E pur nelle patenti superficialità filologiche denunciate da Comparetti, Lombroso ebbe comunque lo scrupolo di fornire almeno alcune sempre sommarie descrizioni della realtà sociale ed economica dei greci di Calabria.

Sul versante storico-linguistico sono Morosi e Pellegrini ad “accorgersi” dei greci di Calabria (A. Pellegrini, Il dialetto greco-calabro di Bova, Torino, 1880) ma le loro ipotesi sull’origine della presenza ellenofona in Calabria per immigrazione dal mondo bizantino fra il VI e il X secolo non sono oggi accreditate dagli studiosi
Luigi Borrello (Bova1871 – Palermo 1949) è senz’altro in questa fase storica una figura importante. In primo luogo perché bovese e quindi osservatore privilegiato della cultura locale. A lui si devono una serie di importanti note che furono fondanti per gli studi successivi sul greco di Calabria.
Il XX secolo e la profonda crisi del mondo greco-calabro

Il più qualitativo interesse del mondo scientifico e culturale verso i greci di Calabria che si generò soprattutto nella seconda metà del ‘900, non riuscì ad incidere socialmente intervenendo sull’irreversibile crisi della lingua grecanica. “Grecanico” (“Piccolo” greco, greco “minore” a rilevare il carattere dialettale della lingua locale differenziandola dal greco della Madrepatria, il Neogreco) è in ogni modo un’espressione di origine colta. I greci di Calabria definiscono sé stessi greki, taluni considerano l’espressione “grecanico” addirittura offensiva preferendo altre dizioni quali: greco di Calabria, greco-calabro, etc..
Il XX secolo portò con sé la crisi del grecanico per le enormi trasformazioni sociali ed economiche che la cosiddetta “modernità” aveva ingenerato nell’area, prime fra le altre le scelte antimeridionaliste dello stato unitario, l’emigrazione e lo spopolamento delle aree interne. Non sono da trascurare inoltre fattori psico-sociali importanti. Difatti già dal ventennio fascista in poi la lingua ed il mondo greco-calabro erano identificati come tratti di arretratezza e di sottosviluppo da “dimenticare” al più presto. I maestri infliggevano umilianti punizioni agli alunni sorpresi a parlare una lingua “straniera” in classe e varie testimonianze confermano che una delle più comuni espressioni, utilizzata per dare dell’idiota a qualcuno nella stessa Bova degli anni ’30-’40, era “mi pari nu grecu”. Sicuramente da quel momento storico in poi il grecanico venne identificato dalle stesse popolazioni locali con il sottosviluppo economico e l’emarginazione sociale.
Nel frattempo una serie di frane e di alluvioni che dagli anni ’50 in poi colpirono le comunità dell’interno finirono per disperdere materialmente le comunità medesime e con esse la lingua. I borghi pastorali e contadini venivano “ricostruiti” in anonimi paesi dormitorio sulla costa a decine di chilometri dal sito originario, gli abitanti trasferiti in massa. Questa sorte toccò ad Africo nel 1951 ed a Roghudi nel 1972. Ma sia pressoché contemporaneamente Gallicianò che anni dopo la stessa Bova (frane nel 1972/73 e terremoto nel 1978) non furono esenti da tentativi di trasferimento completo dell’abitato più o meno fondati su disastri naturali o appoggiati da speculazioni politiche. E’ da considerarsi miracolosa la resistenza degli abitanti nei pochi borghi ellenofoni che oggi sopravvivono nell’interno in particolare per le difficili condizioni logistiche (oltrechè economiche): ancora senza strada asfaltata è Gallicianò, la stessa “capitale morale”, i Chora tu Vùa, Bova è collegata da un impervio tracciato di primo ‘900.
Attorno al 1920 il greco di Calabria scompariva da Cardeto per poi limitarsi a cavallo delle due guerre ad Amendolèa (Amiddalia), Bova (Vua), Gallicianò (Gaddicianò), Condofuri (Condochuri), Roccaforte del Greco (Vunì), Roghudi (Richùdi).Sicuramente scomparve ancor prima dall’uso quotidiano anche a Pentedattilo, Palizzi, Staiti, Brancaleone e la stessa Africo fra XIX e XX secolo anche se dati precisi in tal senso non sono a nostra conoscenza.
Oggi il greco di Calabria è parlato dalle fasce generazionali anziane di Bova, in modo più diffuso ma frammentato e quasi mai pubblico a Gallicianò ed a Roghudi Nuovo. In casi oramai isolati a Condofuri ed Amendolèa. Si può considerare scomparso da Roccaforte.
Si deve comunque alla fondamentale attività del grande filologo tedesco Gerhard Rohlfs (Berlino 1982 – Tubinga 1986) ed alla sua capillare ricerca “sul campo” se molto del patrimonio linguistico ellenofono è stato salvato. La sua attività già a partire dagli anni ’20 finì, in particolare dopo la guerra, per aggregare intorno a sé ed ai suoi fondamentali scritti tutta una serie di giovani entusiasti sia in Italia che all’estero. Sin dagli anni ’60 assolutamente rilevante fu l’attività di ricerca e di animazione di un gruppo di giovani storici e filologi calabresi che diede successivamente vita sia all’Associazione Culturale “Calavrìa” (1986) che al periodico “La Jonica” (edito dal 1969 al 1980), in particolare Domenico Minuto, Franco Mosino e Velia Critelli. Gli anni ’50 rappresentarono un autentico momento di fioritura degli studi sui greci di Calabria, da Rossi Taibbi e Caracausi a Benito Spano al greco Karanastasis che con i cinque volumi del suo “Vocabolario Storico dei Dialetti Greci dell’Italia Meridionale” contribuì alla sistemazione del prezioso bagaglio linguistico dei greci di Calabria e di Puglia.
Gli anni ’60 e ’70 furono comunque decisivi per la nascita di una coscienza collettiva da parte dei greci di Calabria circa l’importanza del proprio patrimonio linguistico. Iniziarono così a nascere una serie di associazioni culturali che saranno poi più o meno attive nel sostenere il recupero e la salvaguardia delle radici culturali. Fra le varie associazioni culturali nate nel tempo segnaliamo come particolarmente attive “Kum.el.ka” di Gallicianò e “Ialò tu Vùa” di Bova Marina.
La legge di tutela delle minoranze etniche (15 dic. 99 n. 482) apre nuove prospettive per i greci di Calabria. Fra gli altri progetti ci si augura che prenda ufficialmente l’avvio l’attività dell’I.R.S.S.E.C. (Istituto Regionale Superiore Studi Elleno Calabria) di cui per il momento esiste già la struttura a Bova Marina.
.Cosa leggere sul mondo bizantino:
– G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero Bizantino, Torino, 1968
– V. Von Falkenausen, La dominazione bizantina nell’Italia Meridionale dal secolo IX al secolo XI°, Bari, 1978
Storia orale:
Per quello che riguarda la storia orale il più rilevante archivio audiovisivio sui greci di Calabria (e sulla Calabria meridionale) è:
Archi/Med (Archivio Audiovisivo di Med Media)
Via Foro Boario, 2
89133 Reggio Calabria
0965.591039 e-mail: info@med-media.it

Questo post é stato letto 51280 volte!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *