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Di Mario Nirta
Potevo avere sì o no quattro o cinque anni e tornavo con mio padre da un ospedale di Messina: il male era sempre quello che mi tormenterà tutta la vita e che, ormai lo so, mi accompagnerà sino alla fine: calcoli renali. Portavo con me un’automobilina a corda ed il ricordo di una suora che rispose dandomi un pezzo di pane duro e cosparso di formiche alle mie parole: “Sorella, mi faci fami”. E se è vero che mangiai quel pane, perché la fame dei bambini non si può controllare, è anche vero che non ho mai digerito quel gesto. Il viaggio, a quei tempi era lunghissimo e per un bambino interminabile. Cullato dal tran tran del treno mi appisolai, quando mi svegliai era notte e mio padre per frenare la mia ansia d’arrivare a casa, mi disse: “Guarda, quelle sono le stelle di San Luca”. D’allora, in qualsiasi parte della terra mi trovi, io la sera vado sempre a cercare nel cielo le stelle del mio paese. Le ho cercate sulle Dolomiti in una notte di tormenta, le ho cercate a Bolzano una sera in cui la nostalgia mi struggeva, le ho cercate persino in un ospedale una sera di pioggia con un dolore che mi spezzava in due mentre tiravo giù dal cielo tutti i santi di mia conoscenza. E le ho sempre trovate, sia perché le stelle del mio paese sono sempre state le più luminose, e sia perché sapevo che la prima stella della sera – che noi bambini chiamavamo la stella di “Bettelemme” segnandoci con devozione – sorgeva davanti a Farnia per poi andare a dormire dietro Montalto. Adesso qualche imbecille, cui i media riconoscono un’importanza spropositata e ingiustificata, suggerisce di cercare le stelle del mio paese nella costellazione dello Scorpione. Ma siccome questo poveraccio non mi fa più nemmeno rabbia, ma solo pena, continuerò a cercare le mie stelle in tutte le costellazioni, tranne che in quella, perché so che quelle non sono, non sono mai state e non saranno mai le stelle del mio paese. Sono dolci, sono materne le stelle del mio paese. Sono sempre le stesse stelle che una sera di primavera un bambino col naso appiccicato al finestrino, guardava da un treno che non arrivava mai alla sua stazione.
Nella foto Mario Nirta:
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