Riflessioni sull’opera di Larizza “Da grande vorrei fare il comunista”

Copertina del Libro di Ferdinando Larizza

Questo post é stato letto 11100 volte!

Ho letto con esagerato anticipo, appena fresco di stampa, e smanioso di tuffarmici dentro le righe, il libro del Bovese Ferdinando Larizza dal titolo “Da Grande Volevo fare il comunista” edito da La Memoria del Mondo Libreria editrice Magenta. La tempistica straordinaria è dovuta al fatto che non esistono lunghe percorrenze tra Milano e la zona in cui risiedo per lavoro.

Confesso e devo dare atto e contezza della veridicità dei sentimenti di affetto e sensibilità espressi nella pregevole prefazione del professore Pasquale Casile. Nelle righe incipitali del professore, che aprono pregevolmente il libro, emergono i sentimenti di quanti di noi, figli di gente umile di schiatta fiera e di lignaggio contadino, sentimmo nei viottoli di paese mentre venivamo allevati e istruiti all’ombra di una fede politica profonda, intellettualmente sentita, addolciti negli umori e ingentiliti, ma non per questo meno fieri o frustrati dalla nostra condizione sociale, da magnifiche menti e da grandi filosofi del progresso appartenenti o appartenuti a quei valori politici di sinistra. Valori che sapevano di affetto, coraggio, orgoglio, altruismo, positivismo, e lotta nonché di amore sconfinato per lo studio e per la conoscenza. In quel meraviglioso mondo, tanti potevano trovare le loro radici, le loro sofferenze e cercando il fuoco interiore del riscatto sociale sotto l’ombra di Gramsci, di Lenin, di Pertini, di Turati, di Trotzky, di Misefari. In questi ricordi passati e nell’attuale vissuto moderno, Io e il prof Casile, seppur distanti, mentre nello scorrere delle pagine, ci siamo lasciati andare al sentimento di commozione e nostalgia, per le malinconie del passato, per il mondo che oggi ci ritroviamo diverso, per le nostre sofferenze personali, per le persone che hanno patito e affrontato le lotte di riscatto.

il Libro di Ferdinando Larizza
il Libro di Ferdinando Larizza

Figure preziose di uguaglianza che non ci sono più e che ci mancano oggi più di ieri. Ferdinando ha trasmesso nelle righe ciò che è stato, quello che ha significato per tutto il terzo e il quarto stato essere di sinistra. Ha con maestria descritto in termini chiari e semplici quel sentimento di passioni e valori che batte nel petto di ogni progressista ottimista, ciò che è stato viverli fino in fondo nelle più semplici azioni di bontà del quotidiano esserci e con-esserci. Il valore della testimonianza lasciata ai posteri è di alto sentire storico, ci tramanda documenti e testimonianze inedite persino della “Notte della Repubblica” di Zavoliana memoria. Ma la dirompenza dello scritto è altresì testimone di passato e di presente attuale. Il suo libro dona le risposte ai compagni, siano essi riformisti o marxisisti puri, partecipi passati e attuali in ogni zona dell’area grecanica, quesiti che ogni intellettuale serio deve per forza porsi sottopena di fare solo un passo indietro e mai due in avanti. Per molti anni il sottoscritto ha notato un paradosso politico su cui valeva la pena perdersi in ragionamenti, ovvero: perché mentre per molti anni si guardava a Bova Marina come la fucina della sinistra intellettuale dell’area, si è verificato invece che l’attuazione di una spinta propulsiva il suo esatto opposto. Il verificarsi di un meccanismo più flebile delle idee progressiste sulle masse rurali situati nei paesi satelliti. La domanda ovviamente trova risposte in requisiti storici, antropologici, religiosi, economici, e persino sulla misura della forza di oppressione e reazione sulle masse a seconda dei meccanismi dell’esercizio del potere. Come mai non si è creato nella prassi un’onda capace di travalicare i confini e superare le ambizioni partitocratiche dei dirigenti con un agire coeso e coordinato?. Chi leggerà il libro, potrà ricavare le informazioni opportune al quesito e forse rintracciarli anche in una specie di sentimento gnostico soggettivo della rivoluzione. Quella che Gramsci chiamava in poche la “rabbia appassionata” come passo essenziale ma minoritario del progresso socialista. Ed è questo sentimento soggettivo, fatto di valori di tante rabbie appassionate, piene di solidarietà e altruismo, intriso di sentimento democratico, il filo conduttore che ha caratterizzato l’azione umana dei compagni migliori. Esso è stato uguale e tuttavia identico nei rapporti tra le masse di sinistra, uguale nel sentimento ovunque. Se la storia piange un coordinamento organico e incisivo in grado di travalicare ogni confine comunale, è inevitabile riflettere quel sentimento che ha segnato le vite, l’intelletto e la valorosità umana di chi lo sentì e lo visse come un apostolato laico. Un apostolato avulso da ambizioni di cursus honorum politici e veicolato da uomini probi come i fratelli Antonio e Domenico Larizza rispettivamente padre e zio dell’autore. Come poi non citare il compianto Pasquino Crupi di cui ne rimpiangiamo le idee e le visioni a distanza di anni. Essi seppero tuttavia lasciarci una eredità preziosa e pesante che rischia di poggiare sulle spalle non di forzuti Sisifo, ma di gracili attori democratici a volte lasciati alla loro speculazione solitaria o lontana priva del vero humus partecipativo delle masse. Per questo il libro non è soltanto un semplice Amarcord solo Bovese e soltanto comunista, esso è un monito totalizzante per ogni persona che sta a sinistra e chi vive il qui e ora presente. Le righe non lasciano dormire sonni tranquilli ai post comunisti, ai ricostituendi socialisti, ai post democristiani, ai liberali, ed è per questo che non è un libro fazioso e divisivo, anzi è un bivio sul passato e sul presente per un nuovo e più moderno viatico.

Un viatico che molto spesso la nuova classe politica non sa percorrere o percorre in modo sbandato e sbilenco. Mi vengono a questo punto in mente le parole di un vecchio compagno Montebellese, che nei giorni di una campagna elettorale nazionale esclamò “ dove sono andate a finire le mie lotte!? non solo le mie ma anche quelle degli altri compagni per lasciarvi in eredità un mondo pieno di possibilità che noi non avevamo. Spetta ora a voi giovani dare degna risposta a questa domanda se sarete volitivi, uniti, pronti e capaci con la mente”. Una esclamazione pesante come un macigno. Nelle pagine di Ferdinando ho rivisto la mia adolescenza, fatta di contadini, di saggi incolti ma arguti, che avevano saputo intuire che nello studio e nella cultura delle nuove generazioni vi è la chiave per spezzare le catene dei soprusi e delle sopraffazioni. Ho avuto la fortuna, come Ferdinando del resto, di essere stato uno dei pochi che abbia potuto contare sulla funzione educativo pedagogica del partito, anche se nato poco prima della caduta del muro. Funzione di crescita umana, dono di rivoluzionari nati poveri e studiosi per passione, che avevano coltivato il sogno di un domani diverso e più giusto. Costoro a un certo punto si illusero davvero poterlo realizzare pienamente, e smisero di parlare di speranza e iniziarono a parlare di felicità. La brutale e barbara fine dell’onorevole Aldo Moro prima, il principio di un attentato a Berliguer in Bulgaria, la marcia dei quarantamila, la caduta del muro e il crollo rovinoso della Prima Repubblica con la fine della partecipazione di massa ai partiti dopo, posero fine a tutto. Il percorso di una maturazione di una idea iniziato alla fine del 1800, spostava nel 1991 le lancette della storia all’indietro, un percorso glorioso, tortuoso fatto di lacrime e scissioni dolorose a volte. Dal 1921 da quanto il Pci si era scisso dal Partito socialista al congresso di Livorno por sposare le tesi della terza internazionale, al 1991 erano passati ben 70 anni. Un percorso che aveva portato i suoi contributi a grandi riforme e grandi innovazioni sociali. L’occasione nel 1991 di ricucire lo strappo del 1921 assieme ai socialisti, fu mancata: non nacque mai una socialdemocrazia moderna ed europea, partecipata e al passo coi tempi, ma un ibrido di correnti post democristiane e post comuniste. Vero è che molti protagonisti della politica di quegli anni ebbero sia nel Pci che nel Psi un grosso peso di responsabilità, si pagarono gli asti dei fischi a Berlinguer al congresso del Psi, poi restituiti a Craxi ai funerali dello stesso e le opposte divisioni sul sovietismo che ormai sembrava un argomento monolitico insuperabile e di legittimo sospetto.

Non aver avuto un partito socialista rinnovato in quegli anni fu un danno enorme, il Pci si avviava alla svolta della Bolognina con le lacrime di Occhetto e la scissione di Ingrao, il Psi iniziava la sua diaspora. Da lì non possiamo fare a meno di notare come le disuguaglianze sociali siano aumentate, la democrazia entrò in una crisi di partecipazione e non seppe più trovare l’humus delle partecipazioni sentite di base nelle sedi locali che vennero chiuse, di converso la funzione di crescita umana e pedogogica esercitata fino a qualche anno prima venne meno. Iniziava la distanza, il populismo, l’astensione, il sentimento antipartitico. Per questo oggi più che mai è importante leggere la testimonianza impressa nel libro di Ferdinando. Dotato di una narrazione semplice, scorrevole, ma intensa e sentita. Mentre lo si legge sembra di stargli accanto a parlare seduti nella panchina della villetta del suo paese natio. Oggi come allora, anche a me viene in mente, cos’è quella passione che batte nel cuore di chi sta a sinistra. Quella passione che Ferdinando ha vissuto così come l ho vissuta io da piccolo nel 1996, quando chiesi un intellettuale gigantesco proveniente dal Pci quando è che saremmo riusciti a cambiare il mondo, il nostro mondo, quello che ti serrava le porte delle case dell’alta borghesia. Questa fu la risposta : “Il mondo potrai cambiarlo solo quando avrai letto esageratamente tanto, studiato fino allo sfinimento, ricercato, e rivisitato con senso critico ciò di cui eri esattamente convinto fino a un minuto prima. Non chiederti quando sarà la rivoluzione.

Cosa potrai fare nella rivoluzione se non sei istruito? La rivoluzione prima che delle mani strette in un solo minaccioso pugno ha bisogno di menti argute, solo così potrà migliorare l’umanità, altrimenti è solo un cambio di potere. Devi comprendere che non si può fare la rivoluzione se si è ottusi, così come non si può vincere una guerra con un esercito di digiuni. E poi, la rivoluzione non è un pranzo di gala. La rivoluzione è anche un atto soggettivo e perenne. Ecco ! Se proprio vuoi avere un compito nella rivoluzione, sii consapevole che lo hai fin da adesso, è sederti e studiare, studiare e ragionare più che puoi. Lo studio è il tuo assalto al palazzo d’inverno, quando sarai dentro, vai alla ricerca di coloro che senza muovere dito avranno voluto condannarti alla fame e all’esilio, voltati indietro e rivediti, quindi cercali anche se nascosti nella storia, essi sono coloro che ti hanno messo catene e giogo senza colpa alcuna. Quando li avrai trovati e ti sarai spezzato dai vincoli, stanali, ma non metterli al muro come i Romanov, non serve è inutile, è brutale e bieco, piuttosto riserva loro una condanna peggiore, lasciali vivere e umiliali con la bontà dei bei gesti, con la bellezza, con la cultura, con le idee, col sapere che ti sei conquistato da solo. Quella sarà allora la tua rivoluzione, issata la bandiera sulla vetta, il tuo compito non sarà finito, riconosciti nella sofferenza dell’altro da te, se lui ti riconosce aiutalo egli è un altro compagno che deve uscire dal passato come ne sarai uscito tu. Solo allora capirai che anche vivendo nemmeno quel vissuto del tuo passato è stato un vezzoso pranzo di gala….”

Era il 1994, Baggio aveva appena mandato il rigore alle stelle, faceva caldo ed ero piccolo. Ho tentato di fare ciò che mi era stato detto, non so se ho fatto bene e se ho vinto, l’unica cosa che so è che non è stato davvero un pranzo di gala, e i poveri oggi come nel 1994 come nel 1860 ci sono ancora e sono soli orfani dei propri partiti e senza befatrofi di sfogo nelle sezioni ormai chiuse.
Il libro di Ferdinado sarà presentato a Bova Marina, il suo paese natale in Agosto, leggendolo mi sono sentito indegno erede di grandi idee e personaggi. L’appuntamento è per Agosto dunque quando leniremo i nostri sofferti esili di necessità e faremo ritorno breve alla nostra Itaca, e su questo daremo aggiornamenti certi dell’evento nei giorni a seguire.

di Domenico Principato

Questo post é stato letto 11100 volte!

Author: Ntacalabria Redazione J