I Monsolini da Reggio, le Chiese di San Pantaleone, asilo ed empietà

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di Carmelo Bagnato

A Reggio tra il XVI-XVII secolo, tre famiglie, Consolini, Malgeri e Melissari, si contendevano il dominio della città. Infatti, in detto periodo, troviamo che a capo del comune c’era sempre qualcuno delle nominate tre famiglie. Si accentuarono le rivalità durante il periodo della riforma religiosa, per le reciproche accuse anche di luteranesimo tant’è che il vicerè inviò a Reggio nel 1562 l’inflessibile Pietro Antonio Pansa il quale, guarda caso, mandò al rogo solo quattro cittadini di Reggio, mentre gli altri undici, di cui sette padri cappuccini erano di San Lorenzo.

A quelli che abiurarono, che non erano pochi, fu dallo stesso inquisitore Pansa, ordinato che portassero sul petto e sulle spalle, un panno giallo attraversato da una croce rossa. Ora accadde che in questa stessa baronia di San Lorenzo, dopo oltre mezzo secolo, esponenti dello stesso casato Monsolini, gravati di delitti nei riguardi i concittadini Malgeri, cercarono rifugio nella campagna di San Pantaleone, territorio della citata baronia, e per godere del diritto d’asilo allora accordato alle chiese, ne eressero una, col titolo di San Pantaleone poco distante dall’altra, antica da secoli ormai priva del monastero, intitolata allo stesso Santo, ridotta comunque in pessime condizioni di agibilità. Quest’ultima però si trovava nel territorio della diocesi di Bova, il cui vescovo fungeva anche da autorità civile. Era il tempo in cui i bizantini si adoperarono perchè le circoscrizioni religiose coincidessero con quelle civili, ovvero,con i feudi.

Quindi, nel 1627, data incisa sulla campana, in questo lussureggiante territorio, sussistono due chiesette dedicate allo stesso Santo non lontane l’una dall’altra, ma site in diocesi diverse: la vecchia in diocesi di Bova, la nuova, appartenente ai Monsolini, nella diocesi di Reggio. Fino a quando non scomparve interamente la vecchia, e intorno alla nuova furono costruite parecchie case tanto da comporre un villaggio, i canonici di Bova non si erano minimamente preoccupati del tempio cadente, abbandonandolo allo stato di completa inagibilità, per avere, ovviamente, valido motivo di domandare ai Monsolini il permesso, peraltro subito accordato, di celebrare temporaneamente il rito nelle solennità della festa del santo, nella loro nuova chiesa; riti che, col tempo, senza preoccuparsi di riattivare il vecchio tempio, continuarono imperterriti ad esercitare giurisdizione religiosa persino con la prepotenza.

Al che l’ arcivescovo di Reggio mons. de Gennaro, non tollerando tale comportamento dai diocesani di Bova, dopo numerosi inviti a desistere, il 27 luglio 1663, ricorrenza della festa di San Pantaleone, inviò sul luogo il promotor fiscale della sua Curia, Michele Dialà, con armigeri con lo scopo di impedire al Clero bovese di esercitare giurisdizione sulla sua diocesi reggina.

I canonici di Bova, alle palesi intimazioni dei reggini, si rifiutarono di uscire dalla chiesa, nella quale già celebravano, e venuti, dopo accesi litigi a colluttazione, gli armigeri spararono dei colpi di fucile ferendo taluni canonici e preti di Bova, inducendoli così, finalmente, all’interruzione del rito.
Scrive testualmente Carlo Guarna Logoteta in Cronaca dei vescovi e arcivescovi di Reggio Calabria da pag. 88: ” Mons. Bernardino d’Aragona vescovo di Bova alla notizia del fatto pubblicò le censure ecclesiastiche contro l’arcivescovo, del vicario generale Odoardo Feo e del promotor fiscale Dialà, e riferì a Roma le cose avvenute con colori neri, che il sommo Pontefice Alessandro VII spiccò ordine a mons. Marcantonio Pisanelli, vescovo di Volturava, di rendersi tosto in Calabria e di procedere ad esatta inquisizione. Di essa non esiste memoria.

Lo Zappia a cui siamo debitori di parecchie notizie, ci ha conservata seccamente quella che a 13 ottobre 1667 colle galere pontificie governate dal priore Chigi, nipote del Papa, si mandò a Roma il processo fabbricato dal detto prelato contro l’arcivescovo D. Matteo di Gennaro, cavaliere napolitano. Le scritture bovesi ci dicono che per giudizio fatto indi a Roma l’arcivescovo suddetto fu privato per cinque anni dall’esercizio dei Pontificali e che il vicario e il promotor fiscale finirono nelle prigioni. Che per sentenza del 28 febbraio 1665 il vescovo di Bova fu mantenuto nella sua giurisdizione episcopale nelle chiese di San Pantaleone e di Santa Caterina di Gurda, perchè site nel territorio di Ammendolea diocesi di Bova.[…….].”

Ma tale asserzione non sembra corrisponda interamente alla verità dei fatti, come vantato dal clero bovese, in quanto non risulta mai prodotta da mons. D’aragona nè dai successori il mantenimento del diritto acquisito, in quanto le memorie prodotte dai prelati della diocesi di Reggio ricordano che i capitolari di Bova si recavano ogni anno il giorno dedicato a San Pantaleone a celebrare la festa, permettendosi anche loro di udire le confessioni dei fedeli, malgrado fosse loro vietato l’esercizio di giurisdizione, in quanto questa funzione apparteneva interamente all’arciprete di San Lorenzo, ricordando altresì che la chiesa stessa non si apriva alle al pubblico ed ai riti, se non dopo l’arrivo sul posto del sindaco di questo stesso comune di San Lorenzo, il quale faceva subito inalberare sul frontespizio del tempio una bandiera, anche se non sappiamo quale fosse, se regia o comunale, non necessariamente da rilevare.

Ma evidentemente nella diocesi di Bova, la brace covava sotto la cenere,se addirittura a distanza di oltre un secolo di pacifica coesistenza, una ulteriore prevaricazione scatta feroce e cocente, così descritta, a caldo, da quell’economo curato, comunicando all’arciprete di San Lorenzo e all’arcivescovo di Reggio:
” Questa mattina, 2 ottobre 1799 venne in questa villa il sig. vicario di Bova con quattro suoi canonici ed essendo entrato in chiesa fece sumere li corpi sacri che erano nella SS. Pisside, questi mi proibì di amministrare più sacramenti in detta Chiesa.<…> dopo il mio ritorno, mi fu riferito, precisa il parroco, che durante la mia assenza quei canonici avevano buttato fuori della Chiesa la custodietta e l’avevano fracassata. In ciò sentire mi inorridii e potei constatare quanto riferito sentendo dire e sottolineare dal popolo, che quille erano azioni da Giacobini”.

Similmente ai detti popolari di Reggio “ti cumbinasti comu i santi i Riggiu” per la distruzione della città, le sue chiese, statue, icone a quant’altro rappresentasse la cattolicità, da parte dei Turchi nel 1571 e, “si ficiuru comu i canonici di Riggiu” allorchè preti e canonici vennero a diverbio malmenarsi pesantemente nel coro della cattedrale, per motivi di riposizionamento dei loro scanni nel 1644, spesso, tali eventi, confusi o disattesi dagli stessi reggini, a San Pantaleone e Hinterland rimase solo il motto sul primo episodio “si ficiuru comu i canonici i Bova”, forse, anche qua, non ricordando o sottovalutando l’ultimo e più efferato accidente in cui gli stessi canonici furono gli autori dell’empio gesto, sì, proprio loro che avevano giurato di custodirli anche a costo della vita! O no!?

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Author: redazione.news

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