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di Carmelo Bagnato
La pena di morte è incompatibile con la dignità umana, qualunque sia il modo-mezzo scelto per uccidere il condannato. I diritti umani sono universali e indivisibili. Derivano da molte e diverse tradizioni nel mondo e sono riconosciuti da tutti i membri delle nazioni unite (ONU). Eseguendo una condanna a morte la Stato commette anch’esso un omicidio dimostrando la medesima natura nell’uso della violenza fisica.
Peraltro, la possibilità di errori giudiziari, tutt’altro che remota di uccidere un innocente, è un’altra motivazione a favore degli abolizionisti della pena capitale. Con la pena capitale si cancella anche il diritto della vittima alla possibilità di ottenere la modifica di una condanna errata, come la capacità del sistema giudiziario di correggere i propri errore. Ne è il caso esemplare quello di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, italiani in America e anarchici giustiziati nel 1922, che solo nel 1977 il Governatore dello Stato del Massachusetts riconobbe ufficialmente gli errori commessi. Inoltre, è conclamato che la pena di morte è inflitta sopratutto a soggetti svantaggiati in quanto a mezzi economici ed altri aspetti esistenziali, impossibilitati ad affrontare adeguatamente un processo di tale portata, in quanto, una difesa d’ufficio non sempre dimostra la necessaria adeguatezza. Non ha nessun riscontro, infine, che la pena di morte possa essere un deterrente per eliminare e comunque ridurre l’attività delittuosa.
Per abolire la pena di morte in tutte le sue forme, non è mancato l’appello di Papa Francesco ai giuristi dell’associazione internazionale di diritto penale evidenziando nell’occasione, come anche l’ergastolo sia una pena di morte nascosta, quindi chiaro stimolo alla ricerca di una soluzione alternativa.
Tale premessa per rammentare una drammatica vicenda che ha avuto luogo a Chorio di San Lorenzo tra il 1832-1835, di cui ne ho scritto sul mio libro “San Lorenzo, note e memorie storiche” del 2003, errando sull’epilogo del processo, avendo assunto l’informazione dal testo all’uopo citato. Per l’evidente carenza di documentazione a Reggio, in merito al prosieguo dell’iter processuale, mi sono adoperato ad allargare il campo delle ricerche, sino all’archivio di Catanzaro, da dove finalmente ho ottenuto quanto da anni era il mio assillo. Non nascondo la mia gioia nell’avere appreso dell’errore giudiziario in cui era incorsa la G.C.C. di Reggio, liberandomi di un’afflizione che mi accompagnava sin dal momento che avevo appreso della dolorosa vicenda. Perciò quest’articolo che spero dia, come a me, la soddisfazione di conoscere la verità che sicuramente ci libera anche dalla severa condanna della storia.
Accadde che il 9 maggio 1834, la Gran Corte Criminale di Reggio (I Calabria Ultra) condanna alla pena capitale Francesco Tripodi di anni 26 e Maria Nato coetanea, entrambe di Chorio. Per quest’ultima l’esecuzione doveva eseguirsi sul luogo del misfatto, ossia, contrada Ficarazza.
Il misfatto consisteva, per la Nato, di essere stata complice di Francesco Tripodi, suo amante, nell’uccisione del marito Antonio Zampaglione, ossia, nell’averlo provocato e indotto a commettere l’omicidio, visto che lei, avendolo in precedenza avvelenato, non era riuscita nell’intento.
Prodotto appello da entrambe i condannati alla Suprema Corte di Giustizia di Catanzaro, questa, esaminati gli atti, emette la decisione così espressa dalla G.C.C. di Catanzaro: “Ritenuti i fatti semplici della impugnata decisione annullò la definizione del misfatto e l’applicazione della legge e rinviò la causa per nuova definizione del reato e per nuova applicazione della legge alla Gran corte di Catanzaro”.
Quest’ultima, G.C.C. di II Calabria Ultra con sede a Catanzaro, consultato il rapporto del giudice-commissario Oliva e udito il Pubblico Ministero che chiede la modifica della decisione contestata, concordemente, così decide:
1) Non consta che il Tripodi abbia commesso omicidio premeditato, ma semplicemente, omicidio volontario, per cui viene condannato alla pena di 25 anni di reclusione;
2) Maria Nato, poichè non risulta chiaro che sia stata la mandante, e ritenuto che il Tripodi aveva paura delle minacce dello Zampaglione in quanto amante della di lui moglie, si sia adoperato a disfarsi del rivale nella occasione propizia. Pertanto l’imputata viene scarcerata e posta in libertà provvisoria. (La “provvisorietà”, ovviamente, non potendo a priori escludere eventuale altro ricorso alla citata Suprema Corte, malgrado la provvidenziale decisione dalla stessa adottata).
A fronte di questa decisione, ci si domanda: se per un motivo qualsiasi, non fosse stato possibile investire del caso la Suprema Corte di Giustizia, quest’errore giudiziario sarebbe costato la vita ed entrambi gli imputati, con la Nato sul patibolo appositamente eretto sul luogo del misfatto, ricordando ai posteri l’ennesima “Colonna infame” di manzoniana memoria.
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