Esplorando Roghudi Vecchio, ghost town

roghudi vecchio

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Roghudi Vecchio, È solo una ghost town. È solo un paese abbandonato. Molti non vedrebbero altro in quel cumulo di abitazioni fatiscenti aggrappate con tenacia al ciglio di un dirupo: case senza tetto, infissi divelti, mattoni e cemento disposti a comporre un paesaggio caotico che sembra colato lungo le pendici della rocca su cui il paese è stato fondato.

Eppure non è semplice il giudizio su Roghudi.

Roghudi Vecchio

Molti lo hanno osservato da lontano e da vicino, attraversando i vicoli stretti e angusti, ma non tutti sono giunti alle medesime conclusioni. Roghudi non è un’equazione che condurrà sempre al medesimo risultato. Roghudi è una visione straniante.

Per ogni persona che in questo paese non vedrà altro che un luogo abbandonato e desolato ce ne sarà un’altra che verrà pervasa da un fascino ineffabile. Un fascino magnetico e irresistibile contro il quale non esistono vaccini o anticorpi.

L’unico agire sensato è abbandonarsi a esso e assecondarlo.

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Ormai sempre più animali e meno persone affollano queste strade. Lungo il tragitto che ci ha lentamente condotti alla città abbandonata, abbiamo incrociato numerosi bovini liberi di pascolare fra le campagne quasi completamente disabitate.

Le prime case evacuate che abbiamo raggiunto non erano quelle di Roghudi, ma di Ghorio di Roghudi: una frazione che ha subito la medesima sorte del paese maggiore e che ora è ridotta a una ghost town.

Si tratta del preludio a una desolazione ancora più straziante.

Non possiamo evitare di interrogarci sui roghudesi.

La gente che abitava questo borgo era semplice: viveva di agricoltura e pastorizia.

Nei libri di antropologia si parla di loro definendoli un’enclave: una realtà isolata dentro un’altra più grande e definita.

Si tratta di un’etichetta pesante che fonda la sua ragion d’essere nell’isolamento geografico e linguistico di quell’idioma, il grecanico, sempre più circoscritto e insondabile.

Roghudi, tuttavia, era molto più di una comunità agro-pastorale che parlava una lingua incomprensibile.

Roghudi è l’espressione diretta della propria terra con cui il paese ha un legame unico, a partire dalla morfologia che si sviluppa tutt’attorno caratterizzata dal corso dell’Amendolea: una delle più imponenti fiumare del reggino che serpenteggia fra colline e valloni. Il suo greto è imponente in secca e maestoso quando le piogge si riversano abbondanti.

In un’ansa dell’Amendolea, in vetta a uno sperone roccioso si trova perfettamente incastonato l’abitato di Roghudi.

Da qualsiasi angolazione si osserverà questo borgo lo stupore e l’incredulità avranno la meglio.

Com’è stato possibile costruire un paese in un luogo simile?

E’ la storia a darci la risposta: quando le coste erano difficili da difendere dalle aggressioni provenienti dal mare, abitare l’aspro entroterra era spesso garanzia di tranquillità.

La continuità del sito ha condotto alla situazione attuale: un borgo isolato e dallo sviluppo determinano dallo spazio che la rocca poteva offrire alle abitazioni.

“Il paese più infelice d’Italia, forse del mondo” così parlava di Roghudi Pasquino Crupi nel 1982.

Una frase esemplificativa di una condizione critica ben prima delle alluvioni del 1971-72 e 73 che decretarono l’evacuazione completa.

L’economia a base agraria aveva costretto molti abitanti ad emigrare in cerca di fortuna altrove e l’isolamento geografico precludeva qualsiasi forma di modernizzazione. Roghudi era stretto in una morsa dalla quale sembrava impossibile svincolarsi.

Le alluvioni furono solo il colpo di grazia a un borgo già morente.

Abbiamo raggiunto la ghost town, accompagnati da alcuni amici del Gruppo Archeologico Valle dell’Amendolea di Condofuri.

L’effetto straniante si riproponeva con prepotenza: una strada realizzata in tempi recenti fatta di blocchetti di pietra immette direttamente fra le case abbandonate in un’antitesi quasi grottesca.

Alcune abitazioni sono ancora visitate dai proprietari un paio di volte l’anno e si presentano meno fatiscenti, altre sono incomplete o ridotte a ruderi.

Tutte le strutture si addossano le une alle altre indistintamente, come un gregge di pecore su un ripido costone.

Attraverso gli infissi sono visibili macerie, materassi sventrati, parti di mobilio abbandonate all’improvviso, impegnate in una partita a scacchi con lo scorrere del tempo.

È facile incappare in oggetti di vita quotidiana sospesi in un limbo senza fine che ha avuto inizio quando il paese è stato evacuato.

La vegetazione cresce indisturbata in alcune parti del borgo dove la manutenzione degli operai della forestale non arriva.

Di anno in anno è sempre più rigogliosa e le abitazioni che una volta ospitavano i roghudesi ora sono diventate tane per animali.

Non è difficile incappare in qualche pipistrello appeso a testa in giù mentre si ripara dai raggi del sole in un angolo buio delle abitazioni deserte oppure il nido di qualche rondine che figlia indisturbata.

La natura si sta riappropriando di questo luogo come una sentenza inappellabile e con l’inesorabilità propria dello scorrere lento del tempo.

Eppure gli “esuli” di Roghudi si riuniscono nel paese vecchio almeno una volta l’anno, in occasione dei festeggiamenti di Maria S.S. delle Grazie, tra fine giugno e inizio luglio.

È un’iniziativa che testimonia la forza d’animo di questa gente, più forte delle avversità, e la loro volontà di riconoscersi come comunità nel luogo da cui sono stati allontanati.

Una messa viene celebrata nella Chiesa: un edificio semplice ma pregno di significato.

Proseguendo la nostra visita nel paese abbandonato, siamo entrati nella casa di Leo Pangallo, l’ultimo abitante di Roghudi che visse qui nonostante l’evacuazione.

La cucina, il camino, il letto, il tavolo, i piatti e perfino la caffettiera… tutto si trova ancora al suo posto, coperto da strati di polvere e calcinacci.

Calcando i passi finali nella ghost town siamo giunti nelle ultime case del paese, dove il torrente Furria si unisce alla fiumara Amendolea.

Qui abbiamo deciso di imboccare la via del ritorno.

Riattraversando Roghudi ci siamo abbandonati a un’inevitabile riflessione.

Di fronte alla desolazione che abbiamo visto da vicino è difficile ritenere che Roghudi possa mancare a qualcuno. Tuttavia questo è il pensiero dello straniero che non ha ricordi legati a queste case e non ha vissuto il trauma dello sradicamento dalla propria abitazione.

Nel corso dell’anno i vecchi abitanti di Roghudi tornano nel borgo a visitare le mura amiche e a ricordare com’era il passato in un pellegrinaggio struggente. È questo il nodo cruciale: trovare una casa lontano da casa.

Quella casa non può essere Roghudi Nuovo fondato nella fine degli anni Ottanta e definito da Vito Teti “un paese anonimo” o, citando la frase di un suo cittadino, “un dormitorio”.

Quella casa è qui. Se solo non ci fosse stata quella dannata alluvione…

Articolo a cura di Giovanni Speranza

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Author: Maria Cristina Condello

Maria Cristina Condello ha conseguito la laurea Magistrale in "Informazione, Editoria e Giornalismo" presso L'Università degli Studi Roma Tre. Nel 2015 ha conseguito il Master di Secondo Livello in "Sviluppo Applicazioni Web, Mobile e Social Media". Dal 2016 è Direttore Responsabile della testata giornalistica ntacalabria.it