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Innumerevoli i casi di corruzione.
Ciascuno di noi potrebbe raccontare casi di corruzione dei quali è rimasto particolarmente colpito o dei quali è stato testimone o vittima.
Per reazione, la gente colpita non crede più in niente, non crede più a nessuno. Senza ipocrisia e senza guardare la società dall’alto verso il basso, nelle Istituzioni, c’è chi è vittima del carrierismo e dell’opportunismo di coloro che pensano unicamente a ciò che devono ottenere e non a quello che devono dare.
Nell’ambito della società civile è facile corrompere coloro i quali non prendono posizione per non mettere a rischio il proprio posto, la propria vita. A volte per quieto vivere, altre volte per scelta, non si ricerca la verità dei fatti e non si riforma ciò che è falso ed offende la dignità e l’onore dell’uomo, di cui si vorrebbe azzerarne la storia, il passato (Fumus Persecuzionis), costringendolo a scomparire dalla vita civile.
La corruzione, presente in tutti gli ambiti sociali, non è un insieme di singoli episodi di immoralità. Essa è figlia e madre di un sistema e non di qualcosa di eccezionale, per ottenere e mantenere il consenso e/o i propri privilegi, si concede o non si concede qualcosa ad altri. La corruzione è qualcosa di strutturale e non serve limitarsi a inseguire i singoli episodi o a parlare di “questione morale”. Si tratta di un antico modo per esercitare e mantenere il potere da parte di chi esercita il comando ed i singoli comportamenti corruttivi sono manifestazioni di qualcosa di strutturale.
Gli intellettuali di corte, i profeti di corte, hanno il compito di far passare nell’opinione pubblica il messaggio più gradevole. Per giustificare l’indicibile, il sistema criminale, sin dai tempi di Israele, ha bisogno di un apparato ideologico per addomesticare le coscienze. Questo apparato ideologico può essere esercitato attraverso la televisione, può essere iniettato attraverso un modello a-critico di scuola, può essere professato attraverso centri di potere dell’ordinamento costituito.
Una istituzione benedicente raramente non è presente nelle stanze del potere, siede a tavola con i potenti, che sostengono il sistema di potere, ottenendone leggi e privilegi per la propria sopravvivenza, in cambio del proprio silenzio e del servizio dell’addomesticamento popolare. Chi si rifiuta di entrare nel meccanismo corruttivo è emarginato o stritolato. Emblematica la vicenda dell’avvocato milanese Giorgio AMBROSOLI, che negli anni ’70 venne chiamato dal governatore della Banca d’Italia a liquidare (gestire il fallimento) la banca privata di Michele SINDONA.
Si trattava di un finanziere siciliano sostenuto da un grande politico, Giulio ANDREOTTI, vicino al Vaticano. SINDONA aveva il controllo degli investimenti esteri del Vaticano ed era a lui che la mafia italo-americana ne aveva affidato i capitali. AMBROSOLI fu un eroe borghese. Senza scorta e quasi senza collaboratori, fu lasciato al suo destino, sacrificato sull’altare degli affari in un intreccio dei poteri finanziari-massonici-politico-mafiosi, disposti ad eliminare chiunque si fosse messo di intralcio. Lo uccisero a Milano, l’11 luglio del 1979, lasciando due bambini e una giovane moglie.
Il killer venne dagli Stati Uniti, ma i mandanti erano italiani. L’altro esempio è Tina ANSELMI, coraggiosa presidente della Commissione parlamentare istituita per investigare sulla loggia massonica segreta P2 (Propaganda due). Con il suo lavoro cercò, negli anni ’80 del secolo scorso, di togliere il velo al sistema di potere reale che si serviva del potere formale (Parlamento, Governo, Magistratura) per arrivare a realizzare i propri obiettivi criminali e corruttivi. Di quel sistema facevano parte politici, militari, magistrati, alti prelati, agenti dei servizi, banchieri. Tina ANSELMI, cattolica e spirito libero, seppur oggi dimenticata, non fu mai come un “sepolcro imbiancato”. Ricordo con commozione Agostino CORDOVA, Giudice Istruttore a Reggio Calabria quando negli anni ’70 istruì il primo processo alla ‘ndrangheta (De Stefano + 59). Procuratore Capo a Palmi per indagare su massoneria e P2 (Propaganda due).
A Palermo, in contemporanea, Giovanni FALCONE si candidava ad Alto Commissario per la lotta alla mafia e successivamente al C.S.M., ma entrambe le iniziative vennero respinte. Accettò, quindi, la proposta del Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, di dirigere gli Affari Penali a Roma. La Procura Nazionale Antimafia nasceva da un’idea di Rocco CHINNICI, concretizzata da Antonino CAPONNETTO, portata avanti dallo stesso FALCONE, un organismo con il compito di coordinare le inchieste contro Cosa Nostra. Era lui il naturale candidato, ma il C.S.M. lo bocciò ancora una volta e venne preferito Agostino CORDOVA, ritenuto più capace, però il Ministro non diede il concerto. Nel mese di luglio del 1993, CORDOVA diventò Procuratore Capo di Napoli. Dalla massoneria internazionale al malaffare delle istituzioni, passando per le corruzioni di altissimi funzionari del Viminale.
La sua carriera professionale fu costellata da battaglie giudiziarie altisonanti che chiuse talvolta con sconfitte. Intelligente e scaltro, amava rappresentare se stesso come un indomito cavaliere che affrontava solitario il mondo della corruzione. Aveva un brutto carattere e non era un diplomatico. Considerava la diplomazia come una bellissima donna che voleva avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamavano condizionamenti o ricatti. Quando la Procura torinese annunciava la più importante operazione antiriciclaggio mai realizzata in Piemonte, la notizia non ebbe il risalto che avrebbe meritato. Secondo gli inquirenti diversi lavori delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006, dell’Alta velocità piemontese e del porto di Imperia erano stati realizzati riciclando milioni di euro di proprietà di una potente famiglia di ‘ndrangheta calabrese, ma la notizia passò quasi inosservata.
Non una dichiarazione da parte degli amministratori, di un qualche rappresentante degli industriali o dell’autorità che aveva vigilato sui giochi. I soldi godono di una straordinaria facoltà: fanno poco rumore. Nell’immaginario collettivo il pianeta droga è popolato da panetti, pasticche e polveri colorate, stratagemmi, spedizioni e filiere criminali, ma in realtà il suo protagonista più ingombrante, in termini di volume, non è rappresentato dal narcotico ma dai soldi che se ne ricavano. Fiumi di cartamoneta che come le sostanze necessitano di logistica e che alla fine del ciclo penetrano, come iniezioni di liquidità, le economie di mezzo mondo. Non la semplice conclusione della catena, ma ciò cui tutto il sistema mira, sin dall’inizio.
Ciò nonostante, l’attenzione di tutti, politica, investigazioni e media, continua a concentrarsi quasi esclusivamente su sequestri e narcotrafficanti, tralasciando “la pista dei soldi” e il reato di riciclaggio. L’Italia, che non approvò mai una norma contro l’autoriciclaggio, si dimostra particolarmente zoppicante. “Un Paese che non affronti un problema fondamentale come quello dell’autoriciclaggio è un Paese che non può pensare di combattere efficacemente il narcotraffico”, sosteneva Alberto Cisterna quando era Procuratore Aggiunto della Procura Nazionale Antimafia, “tanto più se contemporaneamente si approvano invece gli scudi fiscali”.
Eppure è lì, nei soldi, nella commutazione tra droga e denaro che sarebbe possibile scovare la pietra filosofale, l’alchimia che rende il narcotraffico l’affare illegale più redditizio al mondo e una delle voci più rilevanti dell’economia globale. Se solo si prendesse in considerazione l’intera filiera, anziché fermarsi sulle soglie dei paradisi fiscali e dei mercati, ne deriverebbe anche una diversa definizione di “Narcostato”.
Non più soltanto i Paesi produttori o di transito potrebbero essere etichettati così, ma anche quelli dove si concentra il consumo e dove si riciclano i soldi – Europa e Usa in testa. Sarebbero davvero poche le nazioni a salvarsi e tutte, democrazie occidentali in testa, sarebbero messe di fronte alle loro responsabilità. Perché di fronte ad un’offerta esiste anche una domanda, ma soprattutto esiste la possibilità di fare montagne di soldi. Perciò cocaina ed eroina, protagoniste del mercato della droga, continuano ad essere enormi fiumi carsici che raggiungono e inondano ancora oggi i quattro angoli del pianeta. Nel mondo vi sono interi paesi o regioni strangolate dalle “narcocrazie”. Le vie del narcotraffico intrecciano piccole e grandi guerre che si mescolano alle sue strutture finanziarie, i suoi apparati organizzativi e i suoi profitti. Gli esempi della destabilizzazione che esso produce potrebbero essere numerosissimi, sarebbe sufficiente seguire le rotte dalle regioni della produzione a quelle del consumo.
Dall’America latina agli Stati Uniti, attraverso l’Africa fino all’Europa, oppure dall’Afghanistan per l’Asia centrale, la Turchia, i Balcani, fino alla Russia e, di nuovo, all’Europa. I Paesi sono “drogati” dal passaggio dello stupefacente lungo l’intera filiera. Ovunque operino i signori del narcotraffico si concretizza una minaccia alla politica, all’economia, alla sicurezza, alla società, in una parola alla salute complessiva della regione. Accade a “monte” ma anche a “valle” delle filiere, dallo sfruttamento dei contadini a quello dei consumatori e dei mercati.
Il traffico internazionale di stupefacenti ha imparato a terzializzare le proprie necessità. Si avvale di qualsiasi organizzazione criminale in grado di garantire l’efficienza necessaria a trasporti sicuri e ciò rende ancora più mobili, dinamiche e transnazionali le dimensioni del fenomeno. Ci troviamo di fronte a un business che ha fatto della flessibilità la sua arma vincente e che riesce a sfruttare a proprio vantaggio lo scacchiere dei commerci internazionali, infiltrandone le spedizioni e selezionando i varchi e le dogane più favorevoli. In questo scenario il nostro Paese non costituisce affatto un’eccezione. Sia perché le mafie, e soprattutto alcune famiglie di ‘ndrangheta, figurano tra le organizzazioni di narcotraffico più potenti al mondo, sia perché montagne di soldi sporchi vengono ripuliti nei settori più redditizi dell’economia legale, dal sud al nord del Paese. La questione non è tanto o soltanto educare alla legalità, bensì quella di educare alla responsabilità. Il sistema di potere corruttivo usa bene le forme della legalità in una illegalità sostanziale, ma sempre secondo le regole della Legge. Vorremmo attivare un minimo di azione educativa dentro i processi storici per una “responsabilità testimoniata”.
Non si tratta di riempire un vuoto dando consigli e pareri, ma mettere inquietudine nel cuore dei giovani, aprendo il cuore alla bellezza della libertà e della dignità, già incarnata nel nostro vivere. Aprire mondi impensati, senza la presunzione di creare proseliti o di formare anime belle, ma di suscitare un movimento che abiti dentro i conflitti storici, senza sfuggirne. La cultura ufficiale è caratterizzata da un doppio registro in cui si pronunciano i buoni principi e si tollerano le violazioni agli stessi principi enunciati. In un contesto sistemico di corruzione in cui la tentazione è quella della rassegnazione, di chiudersi nel privato, senza la fatica di osservare le evoluzioni politiche, sentiamo forte il bisogno di educare secondo la spiritualità della Croce, fuori da ogni “grande gioco” di cui parlava Carmine Tripodi che, mai rassegnato e da vinto, smascherò la sistematicità del potere criminale e violento della ’ndrangheta del tempo, testimoniando il suo martirio con la Croce.
Cosimo Sframeli
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