Condanna alla decapitazione del bracciante

Questo post é stato letto 47020 volte!

 

di Carmelo Bagnato

All’epoca del tragico evento di cui ci occuperemo in questo breve assunto, San Pantaleone contava circa settecento abitanti. L’attività della stragrande maggioranza della popolazione era l’agricoltura e la pastorizia. E’ il paese circondato da una vasta campagna che al sud si estende sino il mare, ov’è sita l’altra frazione del comune di San Lorenzo, Saltolavecchia, dall’ultimo dopoguerra denominata Marina di San Lorenzo.
Da quanto evidenziato dalla narrazione della vicenda, malgrado l’abitato fosse carente di luci esterne, nemmeno nella misura di quanto avveniva con i lampioni gas nei paesi poco più numerosi del circondario, la gente nelle ore notturne era molto attiva per il disbrigo degli affari correnti e programmazione del domani. L’attività di tipo sociale e parentale, necessariamente avveniva in queste ore, per compensare a ciò che non si poteva svolgere nelle ore diurne a causa del lavoro in campagna che si protraeva dall’alzata del sole sino a sera inoltrata, tant’è che molti giovani, dopo cena si recavano in canonica ove il parroco impartiva lezioni di catechesi, intrattenendosi con loro fino oltre la mezzanotte, nel mentre a casa , i più piccoli recitavano il Santo Rosario con i genitori ed i nonni. Era il momento in cui la famiglia manifestava i sentimenti della sua intimità e unità.

In questo ambiente così impegnato al lavoro e alle manifestazioni semplici e diuturne, verso le ore 2 dell’1 marzo 1849, quindi nel pieno della notte- alte grida echeggiarono per le viuzze dell’ abitato, di gente che accorreva verso il luogo da dove si era stato udito un lugubre colpo di fucile. Lì, ai piedi della scalinata della propria abitazione, sulla via, adiacente l’orto appartenente alla famiglia Foti ove vegetava rigogliosa una pianta di fico, e da dove sarebbe partita la scarica mortale, giaceva riverso, in un lago si sangue, il corpo dell’agricoltore Giuseppe Curatola.
Dalle immediate indagini, i sospetti caddero sul compaesano Sabbo Iacopino. Interrogati dall’inquirente i “probi” del paese, ovvero personaggi che godevano rispetto e riverenza per la loro condotta morale e civile, , mastro Annunziato Vadalà, Giuseppe Curatola fu Vincenzo, Antonino Scordo fu Domenico e Bruno Zumbo di Pasquale, unanimamente risposero che Sabbo Iacopino era una persona dabbene, che non aveva mai maneggiato armi e che era incapace di commettere tale misfatto. Ottimo soggetto e di cuore. Si constatò inoltre che il detto Iacopino, al momento dello sparo mortale, trovavasi in casa ove recitava il santo Rosario con la moglie ed i figli.
Quindi l’inquirente stesso ritenne opportuno convocare per un colloquio il padre della vittima, Domenico Curatola, incaricandolo e istruendolo su come appurare ulteriori notizie al fine di scoprire il vero colpevole del delitto.

Questi, avendo fatto tesoro delle istruzioni ricevute, dopo qualche giorno ritornò dall’istruttore delle indagini, col proposito di imputare l’altro compaesano, nella persona di Giuseppe Gurnari fu Domenico, di anni quarantacinque, sposato con tre figli, deducendone la casuale per la quale questi avrebbe determinato di uccidere il proprio figlio. Dopo altre e approfondite indagini condotte sul nuovo indiziato, dai “probi” peraltro definito “uomo perfido ed incapace di dimenticare la più menoma e odiosa offesa, unico “discolo” del paese, l’inquirente si convinse che persistevano sufficienti indizi per chiudere questa fase del processo, indicando il presunto assassino, proprio nel nominato soggetto. Il mandato di arresto di Giuseppe Gurnari è del settembre 1849. Gli viene notificato in carcere ove già trovasi per i reati commessi la notte del 4 novembre 1847, ai danni dei coniugi Carmelo Giunta e Bruna Vazzana.

In tale circostanza, i citati coniugi che tenevano delle galline annidate in una casa destinata ad uso di stalla, attigua alla loro abitazione, circa le ore 4, furono svegliati da un forte gracidare e frastuono proveniente da tale luogo. Immediatamente il marito balzò dal letto, e supponendo l’intrusione di un lupo o volpe nel pollaio, aprì la porta gridando con l’intento di spaventare il predatore e indurlo a scappare. Ma ciò non valse nemmeno ad indurre l’intruso Giuseppe Gurnari ad allontanarsi, che anzi l’aggredì con ferocia percuotendolo in testa ed altre parti del corpo, con un grosso e nodoso bastone . Alle grida della vittima, interviene la moglie che pure anch’essa aggredita e ferita dallo stesso soggetto, apponendo tutte le sue forze, riuscì addirittura disarmarlo e buttare l’arma dietro la masseria colà esistente.
Alle alte invocazioni di soccorso della stessa Vazzana, accorrono Vincenzo Iacopino, Giuseppe Curatola e Bruno Vazzana i quali, constatando lo stato in cui erano stati ridotti i coniugi con indicazione del responsabile, con una robusta fune, legarono il Gurnari intrattenendolo per consegnarlo alle forze dell’ordine; quindi cercarono e trovarono anche le armi usate dallo stesso contro entrambi i coniugi. Ma tra i tanti accorsi c’era Saverio Caridi, cognato dell’aggressore il quale, senza curarsi dei presenti nè tenendo conto dell’accaduto, proditoriamente taglia le corde che tenevano stretto il congiunto, rendendolo libero. A tal punto, i coniugi vittime ritengono dover precisare che in compagnia dell’assalitore Gurnari c’era un altro individuo, indicandolo nella persona di Giovanni Fosso, suo stretto amico.
Del tutto, nel riferirlo alla giustizia, emerse che il Fosso era “nemico” del Giunta in seguito alla vicenda secondo cui, Carmelo Giunta aveva riferito a Carmelo Zumbo del furto da questi subito qualche tempo addietro, di un paio di “calandrelle”, indicando nell’autore, il Fosso che si era dileguato. Il Gurnari, peraltro,successivamente redarguito per il comportamento, confessando il reato, si dichiarò dispiaciuto e sostenendo che in quell’occasione era ubriaco e che era giunto a tale eccesso per secondare la volontà del suo amico Fosso.

I periti sanitari sottoposti ad osservazioni i coniugi gravemente feriti, rinvennero, nella persona dello Giunta, ben nove ferite, una delle quali, nella clavicola sinistra, oltre che nel braccio, nel terzo tarso superiore e sterno, escoriazione e quattro contusioni. Tali offese furono giudicate “pericolose di vita per gli accidenti: e quella della clavicola di storpio. Tale evenienza di “storpio”, purtroppo, si verificò, tanto che, nella seconda osservazione, soggetto si trovò ” non libero il movimento del braccio sinistro, del femore e della gamba sinistra”. Nella moglie, Bruna Vazzana, furono constatate, due ferite, una delle quali nell’ippocondrio sinistro e una contrazione, così definite: “la ferita nell’ippocondrio, pericolosa di storpio per gli accidenti e le altre offese lievi, col pericolo che il seguito scomparirà”.
Per gli usi giudiziari il sindaco di San Lorenzo certifica che dai registri dello stato civile del sottocomune di San Pantaleone, di Giuseppe Gurnari non esiste atto di nascita, ma che, calcolando per approssimazione, sarebbe dell’età di 45 anni; che non trovasi riportato come contribuente al di sopra di ducati sei, che non ha alcuna industria visibile, che non è trafficante nè mercante; che non è maestro di alcuna arte e che vive col travaglio giornaliero delle sue braccia. Note caratteristiche: capelli castagni, barba castagna, figura naturale, statura giusta, naso affilato.,
Il 29 novembre 1847 vengono incaricati i periti, D. Pietro Saccà di anni 53, medico , e D. Luigi Catanoso di anni 43, farmacista e pratico di chirurgia, di San lorenzo, di procedere al controllo delle conseguenze su Carmelo Giunta e Bruna vazzana.

Essi constatarono sullo Giunta, non più pericolo di vita, ma pericolo di storpio perchè non può liberamente muovere il braccio sinistro, il femore e gamba sinistra, potendo tuttavia addebitarsi alla brevità del tempo e alla stagione che corre. Sulla offesa Bruna Vazzana constatarono la perfetta guarigione da tutte le ferite subite.
La Gran Corte Criminale della Prima Calabria Ulteriore, il 28 gennaio 1848 emette mandato di arre sto contro Giuseppe Gurnari, figlio del fu Domenico, prevenuto di furto qualificato e percorse in danno di Carmelo Giunta e Bruna Vazzana. L’esecuzione dell’arresto ha luogo il 25 aprile 1849. Salvo altro provvedimento della Magistratura, finora non rinvenuto, l’omicidio sarebbe stato commesso nelle condizioni di latitanza, il primo marzo 1849, a quasi due mesi prima dell’arresto.
Perciò l’accusa al processo iniziato il 4 gennaio 1850 dalla Gran Corte Criminale a Reggio è di “Omicidio premeditato e di tentato furto ferite ed altro con reiterazione”.
Quasi tutti i testimoni a carico, trentatre, ed a difesa, ventuno, confermarono quanto avevano dichiarato in istruttoria, ad eccezione di Bruno Vazzana che aggiunse” di non aver proseguito il discorso perchè il giudicando (imputato) minacciava tutti”.

La sentenza è del 5 gennaio 1850 in questi termini: ” La gran Corte Criminale all’unanimità condanna Giuseppe Gurnari alla pena di morte”.
Il ricorso alla Suprema Corte di Giustizia è del 3 aprile 1850
Il 21 febbraio 1851 la Suprema Corte di Giustizia, rigetta il ricorso, confermando la sentenza della pena capitale inferta dalla Gran Corte Criminale.
L’esecuzione della sentenza è del 31 marzo 1851.
Il verbale relativo, rilasciato dall’usciere Lorenzo Giuselfino (sic) precisa che l’esecuzione è avvenuta per decapitazione alle ore 14.00 nel luogo della Chiesa del Carmine in San Filippo, a Reggio Calabria.

N.b. Resoconto più dettagliato della vicenda sarà riportato nel libro sulla storia di San Pantaleone, di prossima pubblicazione.

Questo post é stato letto 47020 volte!

Author: Francesco

1 thought on “Condanna alla decapitazione del bracciante

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *